Bandiere. Maldini, Bellini, Totti e la bandiera inaspettata

Bandiere. Calciatori che passano l’intera carriera in una sola squadra tanto da diventarne un simbolo come, appunto, la bandiera. A volte sono campioni, altre solo buoni giocatori. Ma l’aver vestito una sola maglia è, per chi segue la squadra, per chi ogni domenica, per anni, lo vede sempre giocare, una medaglia. Soprattutto nel calcio di oggi, col mercato sempre aperto, con i trasferimenti che generano plusvalenze. Cose che interessano i presidenti ma non gli appassionati: il portare, per tutta la carriera, gli stessi colori è un fatto raro che va premiato e sottolineato. Ci tengono molto gli spagnoli, tanto che premiano pure le bandiere degli altri. Un paio di settimane fa, infatti, a Bilbao, Paolo Maldini è stato insignito del “One Club Man Award”, un premio che viene dato a giocatori che non si sono mai separati dalla squadra con la quale sono cresciuti denotando amore e dedizione. E a Maldini, che si è presentato con una capigliatura un po’ improbabile, non si può certo dire di non essere una bandiera: più di 900 presenze in rossonero, un numero di trofei vinti impressionante, una serie di record da leggenda, tutte con la maglia del Milan. E vuoi che non lo apprezzino proprio a Bilbao? Una squadra che ha, nelle proprie regole statutarie, il principio per cui soltanto giocatori baschi possono vestire i sacri colori dell’Athletic. Hanno fatto un sondaggio tra i tifosi per sapere se volevano gli stranieri, cioè non baschi, cambiando le regole. Il 94% ha voltato no. Colui che ha premiato Maldini, José “El Chopo” Iribar, è stato una delle più amate bandiere dell’Athletic. Ha difeso per ben 18 anni la porta dei baschi e ne è diventato uno dei giocatori simbolo. Chi meglio di lui poteva premiare una bandiera?

 

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Bellini in trionfo

Una delle ultime bandiere italiane si è ammainata domenica scorsa. Non un giocatore dai grandi successi come Maldini. Ma la bandiera non deve necessariamente aver vinto tanto. L’amore che riceve è per la fedeltà. E anche perché si presume che, se una squadra ti si tiene tutta la carriera, te lo sei anche meritato. Quindi ci possono essere giocatori, non fuoriclasse ma buoni giocatori, che però si fanno amare per l’attaccamento dimostrato in centinaia di partite. Giocatori come Gianpaolo Bellini. Dai pulcini alla primavera, dalla prima squadra in serie B fino alla promozione in A lui c’era sempre. Magari i tifosi delle altre squadre ti notano poco, magari nemmeno si ricordano bene chi sei e in che ruolo giochi. Ma i tuoi no, i tuoi ti vedono per diciotto anni, diciotto come gli anni di Bellini con la Dea, ti vedono sotto la pioggia e sporco di fango, ti vedono che esci in barella, ti vedono che fai sempre il tuo dovere, ti vedono che esulti per i goal dei compagni ma tu non segni mai perché tu i goal li devi evitare, non li devi fare. E allora succede, succede che all’ultima partita di fronte ai tuoi tifosi l’arbitro assegni un rigore all’Atalanta e a furor di popolo, quasi spinto dai compagni, a tirare ci vada proprio Bellini. Quel Bellini mai protagonista ma sempre affidabile come un amico. E tira un rigore che, guardacheroba, è perfetto: palla da una parte e portiere dall’altra. E i compagni lo portano in trionfo. Non segnava da 5 anni ma del resto non era tenuto a farlo. Della partita, che per la cronaca era contro l’Udinese ed è finita 1-1, in fondo non importava nulla quasi a nessuno. Era il Bellini day. Perché dal tifoso, per le bandiere, per i fedelissimi, c’è gratitudine. E i tifosi bergamaschi lo hanno festeggiato con una bella coreografia prima dell’inizio, con cori incessanti tutta la partita e con il giusto e doveroso saluto a fine partita, così intenso e così vero da piegare dalla commozione Capitan Bellini.

 

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Il ritorno del capitano

Ci son stati grandi giocatori che non son stati bandiere perché di squadre ne hanno girate tante, come Baggio, che, quindi, lo ricordiamo più con la maglia azzurra della Nazionale che con qualunque altra maglia, o giocatori che sono stati sicuramente delle bandiere della propria squadra, come Del Piero, che però non hanno avuto una fedeltà assoluta come Maldini e Bellini. Ma ciò non li rende di sicuro meno bandiere agli occhi dei tifosi. In altri casi (fortunatissimi) la bandiera della squadra è anche il giocatore più forte di quella stessa squadra. Forse il più forte di sempre ad aver vestito quei colori (paragone sempre impossibile, comunque), come nella Roma. Come Francesco Totti. Totti e Spalletti hanno fatto dormire sonni agitati ai tifosi della Roma negli ultimi mesi. Dall’avvento del mister toscano il capitano finisce nel dimenticatoio: si immusonisce in panchina dove passa il tempo a fare scherzi. E non gioca mai. Lui, il giocatore simbolo dei giallorossi. Lui, che comunque solo un anno prima aveva segnato in sforbiciata nel derby con un gesto atletico che distruggerebbe la schiena del 90% degli spettatori presenti senza che nessuno di loro sarebbe poi stato, peraltro, in grado di segnare quel goal. Lui, che è rimasto sempre a Roma nonostante altrove avrebbe vinto infinitamente di più. Lui, Totti. Più bandiera di così. Poi ha rilasciato un’intervista nella quale non ha nascosto il suo disappunto nei confronti di Spalletti che, però, ha reagito duramente non convocandolo nella partita successiva. Un incubo per i romanisti. Totti in guerra con la Roma. E istintivamente tutti stavano dalla parte di Totti. Ma con in sottofondo un pensiero: “che però la Roma, con Spalletti, andava molto meglio“. E in effetti stava giocando benissimo e Totti non giocava mai. E Totti è sempre stato indispensabile per la Roma. E tutti cominciano a dire la propria opinione sul fatto che si dovrebbe ritirare, che sarebbe più decoroso, che oramai non corre più. Sì ma Dzeko non segna nemmeno da dentro la porta, vuoi che Totti quei goal non li faceva?

Poi la Roma comincia ad andare un po’ meno bene e Spalletti decide che è arrivato il momento di fare ricorso a a lui. A piccole dosi, lo comincia a mettere. E Totti è micidiale e decisivo. Sempre. In tutte le ultime vittorie lui è decisivo. Segna, fa assist. Ma la scena da film sono sei minuti. Sei minuti che sembrano scritti da uno sceneggiatore hollywoodiano. La Roma sta perdendo col Torino. Mancano un pugno di minuti e Spalletti lo fa entrare. Oramai non c’è speranza per la Roma, e far giocare Totti solo sette minuti sembra anche una mancanza di rispetto per il mito. Ma lui entra e si mette al suo posto. Arriva un cross e lui, d’esterno, la mette dentro. Dal suo ingresso non sono passati neanche venti secondi. La partita che sembrava stregata improvvisamente si capovolge. Dopo un altro minuto l’arbitro fischia un rigore alquanto generoso a favore dalla Roma. Lo tira lui. Tutto lo stadio, tutti quelli che guardano la partita, e poi diventa un contagio. Anche i tifosi delle altre squadre scriveranno poi nei forum, in quel momento sono con lui. Perché anche il peggior nemico dopo una vita di battaglie, se ne sopravvive e se riesce ancora a essere decisivo, unico e straordinario, merita il tuo rispetto. Totti va sul dischetto e ovviamente, ovviamente perché altrimenti gli sceneggiatori non erano hollywoodiani ma francesi, segna. E va sotto la curva, che in realtà è mezza vuota per la protesta dei tifosi, a raccogliere l’abbraccio che, in quel momento, è di tutti i romantici del calcio e gli amanti delle storie belle.

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Il saluto a Giorgio Rossi

Tutti i siti sportivi del mondo lo celebrano, proprio quando sembrava destinato a un triste crepuscolo torna colmo di classe più decisivo che mai. Ma non era di Totti che volevamo parlare (ironico) perché in realtà alla Roma ci son state bandiere più longeve rispetto a Totti. E le bandiere non devono mica per forza essere campioni, abbiamo detto. Ma forse non devono neanche necessariamente essere giocatori. C’è un uomo nei confronti del quale qualunque tifoso della Roma prova affetto e ammirazione. Non ha mai segnato, non ha mai parato, è sceso sempre in campo in tuta e per pochi minuti. Il suo lavoro si svolgeva però prevalentemente durante la settimana. Massaggiava le preziose gambe dei campioni, raccoglieva le loro confidenze, era prima una specie di fratello maggiore, poi una specie di padre, poi una specie di nonno, dal 1957 al 2012 con la tuta giallorossa addosso. Lo storico e amatissimo massaggiatore Giorgio Rossi. E anche Giorgio Rossi, come i grandi campioni, dopo 55 anni a bordo campo, il giorno del suo addio, è andato sotto la curva a raccogliere gli applausi, l’affetto che gli era sempre passato attorno ma che non era mai diretto a lui. Lui aveva cura di quelle gambe che avrebbero potuto rendere felici i tifosi. E i tifosi, commossi, gli hanno espresso la massima gratitudine.

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@MassimoSilla_