La Pazza Gioia, se la follia è malattia e medicina allo stesso tempo
Donatella Morelli ha il corpo coperto di tatuaggi colorati. È anoressica, cupa, depressa. Il suo pensiero è altrove, in fuga da un dolore terribile soffocato dentro al petto. Il suo “polo opposto” nel mondo porta il nome di Beatrice Morandini Valdirana. Un titolo nobiliare articolato che racconta la storia di una contessa sopra le righe, euforica, autorevole, sempre fasciata da vesti di seta, a suo dire abituata all’intimità con gli uomini potenti della terra. Anche in questo caso, che è quello del nuovo film “La Pazza Gioia” di Paolo Virzì, quel magnetismo senza tempo per cui gli opposti si attraggono, fa il suo dovere. “Mi scusi, che è lei la dottoressa?“ chiede Donatella a Beatrice, incrociando il suo sguardo tra le mura di un non luogo, la comunità di recupero per donne affette da disturbi mentali in cui entrambe sono sottoposte a misure di custodia giudiziaria.
Donatella ha il volto di una delle signore nervose del cinema italiano, Micaela Ramazzotti, la seconda protagonista, invece, indossa l’allure malinconia, qui colorata di follia, dell’ italo-francese Valeria Bruni Tedeschi. Scritto dallo stesso Virzì con la collega regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi, La Pazza Gioia è in concorso dal prossimo 14 maggio al Festival di Cannes 2016 nella sezione Quinzaine des Realizateurs, e sarà distribuito, dal 17 dello stesso mese, nelle sale cinematografiche italiane in 400 copie. “Siamo andati a Trieste, a Montecatini, in un posto a Roma che si chiama Villa Santa Chiara, dove una paziente bipolare si è presentata vestita da sposa” ha raccontato il regista a proposito della lavorazione del film, per la prima volta vis a vis con il mondo della follia. “Non mi ero mai spinto verso le ‘matte’ vere che mi attraggono, mi ispirano, sono calamite forse perché ci capita di provare lo stesso senso di smarrimento e disperazione.“
Una nuova sfida, dunque, da miscelare a quella meravigliosa materia drammaturgica che sono le donne, da cui invece, Virzì, è affascinato da tempo: suoi capolavori di commedia italiana sono infatti i dolcissimi film La prima cosa bella, dedicato ad una mamma tutto pepe che nel 2010 aveva il volto di Stefania Sandrelli, e Caterina va in città (2003), storia di un’adolescente alle prese con la sua timida ingenuità immersa nel caos della metropoli romana. Stavolta, ne La Pazza Gioia, l’incontro tra donne è l’inizio di una fuga che si fa ora burrasca ed ora male calmo, lontana dai ritmi sempre uguali del casolare toscano in cui l’équipe di medici, psicologi ed assistenti sociali badano loro con i farmaci, ma vicina a quella terapia dall’efficacia troppo spesso sottovalutata, che è il confronto. Tra Donatella e Beatrice nasce uno scambio intriso di quell’affetto che, forse, in passato, nessuna delle due aveva ricevuto davvero fino in fondo. Forse sì, forse è proprio Beatrice la dottoressa di Donatella. E viceversa. E forse sarà proprio “la pazza gioia” del loro rocambolesco viaggio (destinato a finire) a potersi rivelare una cura efficace.
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