Arancia Meccanica, i Drughi di Burgess al Teatro Eliseo
Tutti conoscono Arancia Meccanica, il film di Stanley Kubrik realizzato 45 anni fa, talmente celebre da aver eclissato, come succede ai grandi capolavori, il romanzo omonimo a cui si ispirò. È proprio a partire dal testo di Anthony Burgess che nasce invece lo spettacolo in scena fino al prossimo 15 maggio al Teatro Eliseo, diretto da Gabriele Russo. Un’ Arancia Meccanica che vuole prendere le distanze dal film già a partire dai suoi protagonisti; chi si aspetta i tre drughi nell’iconico costume bianco disegnato a suo tempo dal premio Oscar Milena Canonero è destinato a rimanere deluso: i personaggi si presentano in smoking e gilet di pelliccia, e diversamente dal film si esprimono per lo più in un gergo comune, il Nadsat (uno slang derivato dall’inglese con contaminazioni russe, creato appositamente da Burgess), che suona difficoltoso soprattutto al primo incontro con le orecchie del pubblico.
Il debito nei confronti dell’opera di Kubrik è però inevitabile e evidente, a partire dalle affascinanti costruzioni sceniche, con quella tendenza all’eccesso e al grottesco tipica dell’immaginario creato dal regista americano 45 anni fa. L’ Arancia Meccanica di Gabriele Russo si rivela comunque capace di ritagliarsi una dimensione propria, grazie alle ottime idee registiche e al supporto delle musiche di Morgan, incaricato di rimaneggiare Beethoven, il «Ludovico Van» tanto caro al protagonista del testo. Soprattutto, lo spettacolo non soffre di complessi d’inferiorità rispetto a un film tanto iconico, celebre e celebrato: merito della compagnia dei sette bravissimi interpreti che si alternano nei molteplici ruoli e della perfetta orchestrazione dell’azione scenica. Distopico e apocalittico come il testo originale di Burgess, riecheggiano nell’ Arancia Meccanica di Russo anche richiami orwelliani ad una società e un sistema politico sempre più inclini al controllo, freddo e spietato, dei singoli individui.
Rimane aperta la questione se sia preferibile mantenere la propria libertà di scelta anche se ciò significa essere liberi di scegliere il male: privato della possibilità di esercitare l’«ultraviolenza», Alex Delarge non è altro che un’«arancia meccanica», un individuo spogliato di ogni opportunità decisionale e incline al solo automatismo. Abbandonato a sé stesso, gli viene negata ogni speranza di reinserimento nella società, anche dopo aver scontato la sua pena. Lo spettacolo, insomma, si fa portavoce di tutti quei complessi temi etici e morali sollevati da Burgess più di 50 anni fa, dalla questione del libero arbitrio al rapporto colpa-punizione, ritraendo una generazione perduta incapace di redenzione e di cui nessuno si può – né si vuole – davvero occupare. La cura della rappresentazione e l’attenzione alle chiavi di lettura dell’opera non deluderanno chi ha amato il lavoro geniale di Kubrik, con cui lo spettacolo dialoga e regge un confronto davvero monumentale. Un’impresa non da poco.
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