Mi chiamo Jamie Vardy e sono leggenda!
La sera è fredda, le macchine evaporano fiumi di polvere inquinante, il mercoledì si trascina grigio e indolente fino all’ingresso di un pub di periferia, oasi di libertà sociale per il calderone umano della Sheffield provinciale. E’ una serata come tante, le porte si spiegano al suono di un quattro quarti ballabile, le note rock si sono già disperse nelle fabbriche gelide del mattino, che ti impongono ritmo e concentrazione, rabbia e costernazione. La porta si apre vivace, un blues di Berry ammutolisce il rumore dei cardini, due ragazzi avanzano mentre parlano e sembrano sereni, contenti che sia finalmente sera. Uno dei due ha l’aspetto da duro, gli occhi chiari e lucidi, fisico asciutto e nervoso, il capo cinto da una bionda cresta vecchia di una settimana; l’altro, meno spavaldo, con viso tondo e compassionevole, lo sguardo più basso e sereno, sulle spalle un loden e una camicia color panna vecchia di anni, scolorita dai tanti lavaggi a secco. Jamie Vardy
Si avvicinano al tavolo e siedono, ordinano la solita pinta continuando a ridere come se fossero felici e invisibili, mentre a piccoli sorsi quella bevanda color fieno scompare nel bicchiere. Qualcuno li ha notati. La normalità non passa inosservata soprattutto se la si ostenta e si vive in un angolo di mondo; il ragazzo meno vivace, quello con la faccia pulita e il collo inondato di forfora, però, ha un aggeggio ben visibile sul dorso dell’orecchio, evidente nonostante la plastica color carne . Allora il pretesto diventa un’opportunità, quando il futuro è un miraggio e i giorni si somigliano tutti, l’occasione è ghiotta e servita: “Cos’è quell’affare, sordo! Mi senti!?” – gli intima un ragazzo di grossa taglia dall’aspetto curato – “C’è nessuno? Allora sei sordo davvero?” – mentre una risata di gruppo fa eco alle offese pronunciate. Il branco se la ride, la serata sembra arricchirsi di aneddoti, domani nulla cambierà nella vita ma si continuerà a riempire il tempo vuoto raccontando l’episodio a chi non c’era e si riderà per settimane. L’offeso non risponde, quelle parole sono solo un déjà-vu che si ripete da anni: è la sua vita e a lui gli sta addosso così, perché ormai non ha più importanza quando il problema è solo un accumulo numerico; senti dolore solo al primo e al secondo affondo, ma poi il terzo che tende all’infinito lo giustifichi come un peso di cui il destino ti ha fatto dono, un piccolo dazio da pagare per poter vivere i tuoi giorni di silente normalità. Il ragazzino dagli occhi lucidi, però, non l’ha presa bene, quelle parole risuonano dentro come un tamburo, hanno il sapore della sentenza e della sconfitta, dell’emarginazione e del rifiuto, quegli stessi che la società ti sbatte in faccia tutti i giorni, senza renderti il conto, senza chiederti scusa mai. Quell’offesa, che ha il sapore del rifiuto, gli ricorda tanto quel giorno che poteva essere il più bello della sua vita quando, a 16 anni e in compagnia del padre, aveva sostenuto un provino per la sua squadra del cuore: lo Sheffield Wednesday. Il padre, non più giovane operaio e compagno socialista, aveva creduto a un futuro migliore per il figlio, oltre il metallo e i vapori della fabbriche di Sheffield, a inseguire un desiderio che ancora oggi gli piega le mani e la schiena al ritmo di turni infernali. E il figlio, come tutti i ragazzi della sua età, ama e sogna di giocare al calcio e quel sogno lo tiene sveglio anche di notte a immaginare come sarebbe potuta andare se quei 20 centimetri li avesse avuti per davvero. Quei maledetti centimetri d’altezza gli hanno impedito di indossarla quella maglia e di giocare nella massima serie, dove solo un fisico da adulto ti dà il diritto di fronteggiare difensori statuari e scultorei e mettere la palla alle spalle degli avversari. Da allora tutto è cambiato, la vita si trascina anche per lui in fabbrica, di giorno, a consumare i muscoli sotto presse e macchinari moltiplicando movimenti all’infinito, perdendo quella fantasia recuperata solo di notte, nel letto, quando l’immagine di un goal memorabile per la nazionale inglese riempie le orbite chiuse. Oggi la realtà è anche questa e bisogna ancora lottare per quello che si crede giusto in un mondo che, spesso, ti violenta l’anima. La mente ritorna quindi all’offesa, lucida, e in un attimo l’istinto del goleador agita muscoli e tendini in direzione del bullo che sorride col branco. Due piccoli colpi appena sulle spalle per guardare in viso l’avversario, poi un breve incrocio di sguardi prima che il pugno chiuso s‘involi sul ghigno impreparato dell’istigatore; neanche il tempo di realizzare il primo colpo che subito ne parte un altro di simile forza, seppur in direzione opposta. Il provocatore si lascia cadere stordito alla moquette piena di acari che attutiscono il sordo rumore dell’impatto mentre Berry, in aria, ha già consumato tutti gli intervalli della sua pentatonica; le mani che hanno incrociato gli zigomi si precipitano sul collo della camicia, scuotono senza più colpire mentre scandiscono il fiato che dà ritmo alla parola senza tregua: “Li hai sentiti, eh, li hai sentiti adesso, se non li hai sentiti posso dartene ancora e ancora! Rispondi!… Li hai sentiti!”. Neanche il tempo di pronunciare le ultime frasi e già si scatena una mobilitazione di massa, le poche persone presenti si raccolgono intorno per sedare la zuffa, allontanando i due contendenti. Un uomo tra la folla, con la mascella grossa e un aspetto rassicurante, tiene a bada la furia dell’aggressore e, cercando di riportarlo alla calma, gli urla: “Smettila, è finita adesso, ok? Finita!… Cerca di calmarti!” Dal lato opposto del ring improvvisato il ragazzo abbattuto, accerchiato da più persone, sembra svenuto e da più punti del viso il sangue sembra venire giù come pioggia a novembre. “Hai visto cosa hai combinato? Potrebbe costarti cara questa bravata sai, ti sei messo in un bel guaio!” I ragazzi cercano di rianimare il bullo al tappeto che ora apre gli occhi come se fosse appena rinsavito da un coma farmacologico e, con parole disarmoniche, biascica suoni incomprensibili ai più. “Adesso prendi le tue cose e vieni in centrale con me, figliolo” – intima l’uomo che come un arbitro ha evitato il peggio – “Mi dispiace, ti sei messo in un guaio molto serio” . Poi, come mosso da un senso di paterna compassione, si rivolge con tono più pacato al ragazzo dagli occhi lucidi, ambidestro e istintivo: “Hey, com’è che ti chiami?” Il ragazzo, con sguardo smarrito e ancora gonfio di rabbia alza gli occhi sull’uomo dalle spalle larghe e, prendendosi una breve pausa, risponde incisivo: “Mi chiamo Jamie, signore, sono operaio, di giorno, e calciatore di sera per una squadra di quinta categoria”. L’uomo, colpito da quella voce umile e graffiante, osserva quelle labbra magnetiche ora muoversi in maniera seducente e sentenziale come a pronunciare un’imminente profezia biblica:
“Mi chiamo Jamie, signore, e un giorno indosserò la maglia della nazionale di calcio inglese”
“Mi chiamo Jamie Vardy, signore, e un giorno diventerò leggenda!”
Questo piccolo racconto è frutto della fantasia e del suo bisogno di realtà. Non tutto è accaduto per davvero, i reali aneddoti hanno solo intercettato il desiderio di violare quello spazio sottile, il crepuscolo della vita, dove la vista si annebbia e scontorna le strade, le forme e i colori. E’ lì che cominciamo a sognare, è lì che costruiamo i miti e le leggende più o meno reali; è quello il comune denominatore della speranza oltre il confine della possibilità. Jamie Vardy
Jamie Vardy ha esordito in nazionale il 7 Giugno del 2015 all’età di 28 anni dopo una carriera di militanza nelle serie dilettantistiche inglesi; il 26 Marzo del 2016 segna il suo primo goal in nazionale contro la Germania con una prodezza di tacco. Nella stagione 2015/2016, con i suoi 22 goal, ha trascinato il Leicester City alla conquista del primo storico trofeo nella massima divisione. Jamie Vardy
dedicato alla memoria
dell’amico socialista
Antonio Taglialatela
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