Padre Figlio e Sottospirito, preghiera contemporanea di Mauro Santopietro
Contro la crisi del nostro tempo, dal 19 al 24 aprile 2016, alle ore 20.00, presso la Sala Gassman del Teatro dell’Orologio, il debutto di “Padre Figlio e Sottospirito”, regia di Mauro Santopietro. Una prima nazionale di uno spettacolo che fa riflettere sui paradossi dell’esistenza umana. Protagonisti assoluti di questa vicenda, tre fratelli, vittime della crisi economica, generazionale ed esistenziale, Nino, Simone e Alessia. Una vicenda assurda, perché altrettanto assurda è la vita.
Antonio Tintis è l’unico interprete di quest’opera drammaturgica di Mauro Santopietro, a lui spetta l’arduo compito di dover essere voce narrante e di dover recitare tutte le parti. Un onore ma anche un onere, se si pensa alla difficoltà oggettiva per un attore teatrale di dover agire da solo sulla scena, di dover sempre “stare sul pezzo”, se si vuole ricreare un’ambientazione in grado di dominare la scena e di guadagnarsi l’attenzione degli spettatori presenti. Tre fratelli, dicevamo, in “Padre Figlio e Sottospirito”: Nino, Simone, Alessia, che vivono ai margini della società, in un piccolo paesino di provincia dimenticato da Dio, dove il tempo non passa mai, dove tutto è fermo, immutabile, dove le stagioni scandiscono il divenire, dove i giovani non sanno come “ammazzare il tempo” e cercano una via di fuga, un posto lontano, non importa quanto, dalla miseria della quotidianità. Qui i paesi hanno i nomi dei Santi, qui si prega ancora, anche se Cristo si è fermato qualche chilometro prima, forse ad Eboli, o giù di lì. Tutto è volto a privilegiare un’impostazione scenica che risulta claustrofobica: solo una voce narrante, solo la follia di un giovane uomo impazzito per la perdita di sua sorella e di suo fratello.
Solo una stanza, che è insieme casa, serra, sepolcro. Un luogo che è un non-luogo, dove si mescolano la vita e la morte in un abbraccio che non lascia alcuna via di scampo. L’odore della terra, il profumo dei pomodori color rosso sangue, che simboleggiano l’attaccamento morboso alla terra natìa, ma anche l’odio e il rigetto verso di essa. Perché si sa, ciò che amiamo finisce per ucciderci prima o poi. Una stanza, luogo emblematico, scrigno segreto dove si nascondono vecchi ricordi malcelati, dove emergono emozioni sopite, dove il dolore muore e rinasce ogni volta, senza alcuna possibilità di salvezza. Non c’è soluzione, la scelta è solo apparente, in realtà il destino infausto è già scritto. Come in una tragedia contemporanea, Nino finisce per arruolarsi nell’esercito e va in guerra, a combattere per 5.000 euro al mese, mentre Alessia, laureata e disoccupata, finisce per partire come volontaria in Africa, per sentirsi utile e viva. I due fratelli troveranno la morte in guerra, mentre Simone, l’unico che ha deciso di restare, e che si è fatto prete, per 1.000 euro al mese, si troverà a dover seppellire il sangue del suo sangue. Simone ricorda il passato, resta intrappolato in questa rete di ricordi, e non trova pace, perché pace non c’è di fronte all’irreversibilità della Storia. La nostra generazione, come ben descrive Mauro Santopietro, rivede se stessa in uno specchio, guarda i propri fallimenti, rivive la frustrazione di non poter spiccare il volo e di sentirsi bloccata a terra, soffocata in una morsa letale. Così tutte le nostre certezze svaniscono in una nube di fumo, giusto il tempo di una sigaretta.
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