L’importanza della parola e l’inevitabilità del silenzio

Prima del silenzio, in scena fino al 17 novembre al Teatro Eliseo di Roma, è l’opera scritta nel 1979 da Giuseppe Patroni Griffi per Romolo Valli e che debuttò lo stesso anno nel teatro romano che ora ospita la rivisitazione diretta da Fabio Grossi. Allora gli interpreti Romolo Valli, Fabrizio Bentivoglio, Fulvia Mammi, Franco Scandurra e Matteo Corvino furono diretti con sapienza da Giorgio De Lullo.

Trent’anni dopo il testo sembra conservare una sua attualità concettuale, ponendo al centro delle relazioni umane la parola, quale veicolo di trasmissione tra generazioni, ammortizzatore sociale per eccellenza nella sua capacità di accompagnare, guidare e ammonire l’essere umano. Verbo capace di donare il sogno dell’immortalità a chiunque sia capace di lasciare un segno del suo passaggio in questa vita. Protagonista della pièce è un uomo il cui nome non è dato sapere (interpretato da Leo Gullotta), rimasto ormai solo nel muovere i primi passi sul viale del tramonto. Una vita spesa tra poesia e miserevoli relazioni umane, che tornano a disturbarne l’epilogo in veste di fantasmi, evoluti a virtuali apparizioni. Ritroviamo la moglie, compagna di convenienza e di infausta convivenza, il figlio distaccatamente superiore che non riconosce la figura paterna poiché non appartenente allo stesso ceto sociale, nonché il cameriere, distillata personificazione del dovere, strumentalizzato al fine di poter appartenere ad un agio altrimenti precluso. A contendergli la scena un giovane (Eugenio Franceschini) dall’anima incauta e nomade, che rifugge ogni responsabilità fingendo vacui interessi comuni con l’uomo e garantendosi così un tetto sopra la testa. L’inevitabile scontro finale sarà soltanto la drammatica conclusione di un rapporto dove due persone molto diverse, due generazioni troppo distanti (nonché due visioni della vita diamentralmente opposte) hanno perso l’occasione di comunicare tra loro.

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Un viaggio a tratti visionario che, attraverso il confronto tra false realtà, pura immaginazione e assodate verità di una vita, porta alla luce la forza della parola e la consacra a rappresentazione del binomio tra vecchie e nuove generazioni contrapponendo l’eredità degli errori di un passato da scontare, con le possibilità erratiche di un futuro ancora da vivere. Un metatesto che, sebbene vincolato in origine da una obbligata auto-referenzialità, finisce per rimanere troppo ancorato alla trattazione teorica, celando gli intenti narrativi dietro prolisse e criptiche elucubrazioni decisamente troppo pretenziose anche per gli spettatori più attenti. Ottima la prova attoriale dei due: alla versatilità ormai nota di Leo Gullotta si è contrapposta un’audace caratterizzazione del giovane Franceschini, per nulla remissivo nel mettersi a nudo (metaforicamente e fisicamente) sul palco dell’Eliseo. Il tutto prima che la parola, vera protagonista, si facesse da parte e lasciasse spazio al silenzio di una riflessione obbligata.

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