Trivelle, royalties e tasse: come funziona in Europa
Trivelle, royalties e tasse: fingiamo che davvero non sia accaduto nulla nelle ultime 72 ore, proviamoci. Non è una richiesta con fini politici, né da sconfitto accecato dall’insoddisfazione, né da vincente mosso da superbia. E’ piuttosto la strada più breve per osservare, criticare e comprendere come nel nostro Paese funzioni il sistema d’imposte sulla ricerca e coltivazione di idrocarburi. A quale fine? Ci hanno ripetuto sovente che domenica 17 aprile il quesito referendario sarebbe stato eccessivamente tecnico. Allora mi sono chiesto, perché non godere di quella massiccia dose d’imperizia che madre natura mi ha donato? Perché è così che ce l’hanno servita. Su un piatto di sterco.
Come si evince da un’interessantissima ricerca pubblicata nel gennaio del 2012 dal Ministero dello Sviluppo Economico (ma redatta dalla fondazione Nomisma) in Italia il sistema fiscale gravante sull’industria degli idrocarburi comprende 4 voci: Royalties, canoni superficiari, tassazioni specifiche e imposte sul reddito delle società.
Le royalties, citando lo stesso studio, costituiscono «un compenso con lo scopo di poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali», un bene che, attenzione, appartiene alla collettività. Nel nostro paese, prendendo in considerazione esclusivamente le concessioni a mare, queste aliquote si attestano ad un tasso del 7% per quanto riguarda l’attività di ricerca e coltivazione di petrolio e del 10% per ciò che riguarda il gas. Percentuali sul totale della produzione calcolate sul valore di vendita della stessa. Limitandoci ad anticipare che sulla piattaforma continentale (quindi fuori dalle 12 miglia rispetto alla costa) gli introiti da royalties entrano tutti nelle tasche statali, mentre all’interno delle acque territoriali il 55% va alle regioni e solo il restante allo stato, resta da vedere quali siano le altri voci fiscali gravanti in Italia sui famigerati petrolieri: i canoni superficiari sono veri e propri oneri finanziari che gravano su chi ottiene autorizzazioni d’indagine di prospezione, permessi di ricerca e concessioni di coltivazione. Sono previsti dalla legge in base all’estensione dell’area interessata e alle attività portate avanti sulla stessa: finanziariamente parlando rappresentano il valore più basso che le compagnie debbano accollarsi.
Se a questi costi aggiungiamo l’Ires (imposta sui redditi società), l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) e l’addizionale all’ires (la cosiddetta robin tax introdotta nel 2008), la tassazione complessiva in Italia sulle attività di coltivazione ed estrazione di idrocarburi è pari al 63,9% (dati al 2011), ma prendendo in considerazione l’ultima voce addizionale secondo lo studio del ministero, salirebbe fino al 68%.
Conclusa la coraggiosa esposizione su royalties e tasse legate al mondo degli idrocarburi in Italia, aggiungiamo due “scomodi” ingredienti: nel nostro paese esistono sì le royalties, ma esistono anche delle esenzioni valide sotto un determinato livello di produzione di idrocarburi. Nel caso di specie riguardante il petrolio siamo sulle 50000 tonnellate all’anno, in quello del gas ci attestiamo invece su 80 milioni di metri cubi per lo stesso periodo. Un articolo della stampa risalente al 4 aprile scorso mostra come di 26 concessioni totali presenti sulle nostre coste (entro le famose 12 miglia) soltanto 5 destinate al gas e 4 al petrolio abbiano effettivamente pagato royalties. Questo perchè tutte avvantaggiate fiscalmente da una lenta produzione.
Per dare una visione d’insieme chiara e puntuale è necessario guardare anche oltre i nostri confini nazionali. Sono stati in molti a schiaffarvi la bomba che nel resto d’Europa le royalties sarebbero molto più basse. E’ una colossale bugia che ci paralizza ai blocchi di partenza: le royalties esistono infatti solo in Italia e in Germania. Gli altri paesi le hanno abolite rimpiazzandole con politiche fiscali più efficienti.
La Danimarca (che ci precede di una piazza nella classifica dei produttori Europei, 3° posto) come già detto non ha royalties ma un prelievo da tassazione totale sulle compagnie che si attesta su una forbice tra il 64-75% della produzione. Questo perchè le imposte sugli idrocarburi sono più pesanti se riferite ad attività sorte prima del 2004 (70%) o dopo l’anno in questione (52%), mentre qui da noi autorizziamo in legge di stabilità concessioni a vita per impianti ormai arcaici. A queste sono da aggiungere canoni molto più severi dei nostri ( 3,353 €/anno solo se vuoi esplorare il fondale in cerca di qualcosa) e un sistema di licenze su base d’asta. Da ricordare inoltre che la compagnia accaparratasi nel 1962 tutta la torta del mercato petrolifero danese, poi liberalizzato, da qualche anno paga un 20% di surplus sulle imposte.
Anche la Norvegia non ha royalties: il suo sistema si basa innanzitutto su un meccanismo di licenze tese a non disincentivare gli investimenti ma neppure a gettare nella pattumiera le proprie risorse. 8150 €/anno circa se vuoi esplorare alla ricerca di idrocarburi (ma non ne hai l’esclusiva); 13620 se intendi ottenere il decreto di licenza per produzione ma trascorsi 50 anni ti fermi. Non fino all’esaurimento del giacimento quindi (e dato che la Norvegia è il primo produttore in Europa, hai voglia a esaurirlo quel giacimento). Anche qui vale la regola che i pozzi petroliferi risalenti al 1986 paghino un’aliquota addizionale crescente in base al livello di produzione (oscilla tra l’8 e il 16%). Se aggiungiamo anche in questo caso concessioni molto più elevate delle nostre, un’imposta sul reddito delle società pari al 28% e una tassa aggiuntiva del 50% per gli operatori coinvolti nelle attività fondamentali che ruotano attorno a questo mercato, si giunge ad un prelievo ex tassazione totale pari al 78%. Eppure incentiva, visti i livelli di produzione.
Non prendiamo a riferimento l’Inghilterra in quanto paese a tradizione common law, ma basterebbe fare un giro rapido tra i dati di Olanda, Canada e Irlanda per capire che queste royalties sono un vero e proprio specchietto per le allodole. La ricerca, condotta dalla fondazione nomisma per contro del Mise, conclude affermando che un incremento delle produzioni in Italia aumenterebbe il gettito fiscale da investire poi su infrastrutture congeniali al cittadino.
Valigiablu.it critica questo, affermando che, mentre i dati forniti da Nomisma si fermano pressapoco al 2010, ad oggi il prezzo del petrolio è crollato. E non poco. Antitesi che però traballa quanto l’opinione che si cura di contrastare, dato che da domattina risvolti geopolitici e nuovi fattori economici imponderabili potrebbero riportare per assurdo i prezzi al barile ad un livello più alto di quello attuale.
Piuttosto sarebbe da domandarsi: perchè i canoni sono così bassi? C’è chi parla di 300 milioni di introiti in più a fronte dell’attuale milioncino annuo. Perchè all’estero vi sono delle leggi circa il periodo improrogabile di concessione di aree di mare e qui da noi neanche un referendum popolare basta ad abrogare una pratica tanto subdola come quella di estenderle per la vita del giacimento? Norvegia e altri disincentivano vecchi pozzi obsoleti alla produzione, noi li liberalizziamo: Perchè?
Sono tante le domande che possono sorgere da un’analisi di report e studi sul tema. Questi non sono trascendentalmente scientifici, nemici del populismo o della demagogia, richiedono semplicemente pazienza ed attenzione. La curiosità suscitata e la sete di conoscenza ripaga però le fatiche, il territorio non è un club esclusivo di pochi.