Referendum popolare, perché il governo ha paura?
Il referendum popolare sulla limitazione delle concessioni di trivellazione in mare è naufragato in uno scarso 30% di affluenza alle urne. Niente quorum. Ha quindi vinto Renzi?
Un referendum popolare, per sua natura, ha sempre qualcosa a che vedere con la critica al governo. I referendum, in Italia, sono abrogativi (tranne quelli costituzionali): si decide se tenere o cancellare una legge o solo parte di questa. Le leggi sono fatte dal Parlamento o direttamente dal governo, quindi proporre di cancellare una legge è di per se una critica all’operato del legislatore. Dunque è anche normale che il capo del governo voglia difendere il proprio operato, vuoi per convinzione, vuoi per convenienza o per semplici questioni d’immagine. Ce lo vedete voi un Presidente del Consiglio che invita gli elettori ad andare ad abrogare una legge fatta da lui? In tempi in cui ammettere un’errore sembra più rischioso di andare in giro con una scopa di vimini, cappello a punta e gatto nero nella Spagna dell’Inquisizione, non sembra una prospettiva realistica. Quindi è lecito che un primo ministro in una Repubblica democratica inviti gli elettori a non recarsi alle urne? No, non lo è. E non per semplice opinione di chi scrive ma per pura etica politica.
Se la democrazia rappresentativa con cui è regolamentato il nostro vivere comune fosse un contratto stipulato tra tutti noi cittadini, in cui ci accordiamo nel delegare la gestione della cosa pubblica (ovvero le cose di tutti, nostre) a un ristretto gruppo di persone che rappresenti i nostri interessi, allora il referendum popolare sarebbe una clausola con cui ci riserviamo il diritto di modificare l’operato dei nostri rappresentanti. Chissà, magari, per una volta, hanno sbagliato in buona fede: dobbiamo avere il diritto di dirgli che hanno sbagliato. Se dunque il governo e il Parlamento rappresentano noi, perché noi abbiamo deciso di metterli lì, e se esiste un mezzo che ci consenta di giudicarne direttamente l’operato, se i nostri rappresentanti ci dicessero “non utilizzate quel mezzo, non andate a votare al referendum popolare” sarebbe come dire “non giudicate il nostro operato, non mettete bocca su ciò che facciamo per voi”. Che è ben diverso dal dire “ho ragione io, è giusta la legge che ho scritto”. Nell’ultima frase si difende un operato, un’idea, si difende il proprio lavoro ed è cosa più che legittima se si è convinti delle proprie azioni. Ma nel primo caso, ed è ciò che ha fatto chi ha invitato i cittadini a non andare a votare ad un referendum popolare, è puro bullismo.
Lo hanno fatto tutti i governi che si sono trovati ad affrontare un referendum popolare. Il voto popolare, quello vero, quello che esprime un sì o un no su una legge approvata dal governo, fa paura. Ha sempre fatto paura. Disertare le urne a un referendum popolare è quindi, oltre che un segno di menefreghismo verso argomenti di pubblico interesse (e beni comuni come il mare) è segno di debolezza e paura. Sudditanza, per dirlo con una parola. Lì dove siamo chiamati a esprimere quella sovranità di cui ci riempiamo la bocca quando dobbiamo esportare la democrazia, quando siamo chiamati a non essere più solo popolo ma ad essere quel popolo sovrano che solo per motivi di praticità ha rimesso il proprio potere nelle mani di pochi rappresentanti, gli italiani, nella maggior parte dei casi, semplicemente rinunciano al proprio potere, alla propria sovranità. Noi abbiamo sempre preferito che fosse qualcuno a decidere per noi, a fare per noi, a comandare per e su di noi. La sovranità, ed è questo ciò che appare dal referendum popolare, fa più paura a noi di quanto farebbe ai governi se noi la usassimo al pieno delle nostre possibilità.
Si sente dire in giro che l’astensionismo in un referendum popolare è legittimo. Che è per questo che esiste il quorum: per valutare l’interesse della maggioranza dei cittadini su un argomento e su una consultazione proposta da una minoranza. In primis sarebbe da chiedersi secondo quale sistema numerico 9 regioni proponenti su 15 che affacciano sul mare sarebbero una minoranza, quando propongono un referendum popolare sulle trivellazioni in mare. In secondo luogo, sarebbe da chiedersi perché il sistema del quorum, ovvero la condizione di validità della consultazione basata sull’affluenza alle urne di oltre la metà degli aventi diritto, sia applicata solo ai referendum abrogativi. Perché i referendum non abrogativi, come quelli costituzionali, come quello che si terrà a ottobre in cui il governo chiede che venga approvata la propria riforma costituzionale, non hanno il quorum? Sempre perché i governi temono i referendum, temono il responso secco del voto popolare, sfuggono la nostra sovranità come la peste. A ottobre sarà tutto interesse di Renzi che vinca il sì e venga approvata la sua modifica costituzionale, cosa in cui aveva miseramente fallito il governo Berlusconi nel 2006. Mancando delle basi statistiche, è difficile fare una previsione del risultato in base alla possibile affluenza. Nell’ultimo tentativo (quello del 2006) ci fu una grande affluenza, oltre il 52%, e vinse il no, quindi la carta non venne toccata. Ma nel referendum popolare sul titolo V, nel 2001, l’affluenza fu del 34% e vinse il sì, approvando quel federalismo che viene ora ridimensionato fortemente dalla riforma Renzi. Una cosa è certa: Renzi avrà il potere di influenzare l’opinione pubblica, proprio come ha fatto per le trivelle, potrà decidere il giorno del voto, potrà decidere se saranno un giorno o due, potrà influenzare dibattiti e passaggi televisivi e potrà inventarsi tutte le bufale possibili. A ottobre andiamo a votare, esprimiamo la nostra opinione su un argomento fondamentale come quello della nostra Costituzione e sulle regole che sostengono il nostro contratto, altrimenti la nostra sovranità non conterà davvero più nulla.