Mastro don Gesualdo: l’elogio della cupidigia al Quirino
A quasi 50 anni dall’interpretazione di Mastro Don Gesualdo del padre Salvatore “Turi” Ferro, il regista Guglielmo Ferro invade il Teatro Quirino con una trasposizione iper-verista della celebre opera di Verga. Iper-verismo poiché in alcuni tratti l’adattamento modernista sembra superare la prospettiva Verghiana nell’aderenza con la realtà e nei diversi riferimenti alle manie sociali di nuovo millennio.
Non più soltanto uno schiaffo alla miseria umana, irrimediabilmente piegata al cospetto dell’immutevole fato, ma un vero e proprio monito per tutti coloro i quali conservino l’ambizione di raggiungere i livelli alti della società, mettendosi in ridicolo e dandosi inevitabilmente in pasto a serpenti vestiti da conoscenti. Lupi divenuti agnelli tra i lupi, che solo in punto di morte si accorgono che con “la roba” non si può comprare la felicità e l’affetto altrui. Ammettiamolo, il mondo descritto da Verga è tutt’altro che piacevole e confortevole: i suoi scritti si prestano più volentieri ad una lettura invernale, quando le ceneri del caminetto esalano gli ultimi respiri e il cielo piange la sua tempesta. Eppure la rielaborazione curata da Micaela Miano e interpretata dall’ottimo Enrico Guarnieri non risulta per nulla gravosa allo spettatore. Nelle quasi due ore di spettacolo si ha modo di assistere all’ascesa del Mastro Gesualdo Motta (Guarnieri) che sposa Donna Bianca Trao (Francesca Ferro), una nobile decaduta in seguito alla relazione amorosa avuta col cugino Rubiera, mai evoluta in matrimonio riparatore per opposizione della baronessa Rubiera (Ileana Rigano). Sposando una nobile, Gesualdo assume ufficialmente il titolo di Don, ma non viene automaticamente riconosciuto come tale dall’alta borghesia siciliana, pronta a rinfacciarne le modeste origini di garzone di bottega.{ads1} E neanche la sua gente vuole più considerarlo uno di loro, ma si limita a guardarlo con distacco e spregevole ammirazione per essere arrivato tra i potenti. La vita scorre, tra corruzione e arrivismo, finché la necessità di tutelare i suoi averi da futuri sperperi costringono Gesualdo a dare la propria figlia in moglie ad un avido nobile siciliano. La latitanza della figlia e l’aggravarsi delle condizioni fisiche della moglie sanciscono il fallimento di una vita: a Mastro Don Gesualdo non rimane che guardare lo sperpero di tutte le sue ricchezze, mettendo però in salvo l’applauso finale del pubblico.