Tre domande da fare prima degli acquisti
«Salve, avrei bisogno di un paio di scarpe». E’ strano constatare come, dietro quella che parrebbe essere una comoda e piacevole frase, condita da una splendida passeggiata sotto le imperiose insegne di un outlet in una magnifica giornata di sole, si nasconda in realtà qualcosa di più grande e meno luminescente.
Grandi marchi, centri commerciali e gli stessi outlet potrebbero essere assimilati a una nave da crociera: tutti i cavi, ingranaggi, tubature e condutture sono nascosti da rivestimenti di vari materiali che ne addolciscono il design. Ma quanti passeggeri storcerebbero il naso se vedessero questi ultimi esposti, proprio come accade in una nave militare? Non pochi.
Abbiamo imparato a non porci domande: acquistiamo prodotti di cui sappiamo poco o nulla, spesso spendiamo molto più denaro per acquistare il marchio piuttosto che pensare a risolverci i problemi in casa e non badiamo a spese pur di seguire le tendenze. Abbiamo smarrito la nostra manualità.
E’ una vera e propria forma di patologia quella che ci lega a questa triste realtà, radicata soprattutto nel settore tessile e della moda. Ma come ogni debilitazione del corpo umano anche questa conosce la propria medicina: ecco le tre domande da fare prima degli acquisti in un centro commerciale, nell’ e-commerce o in un qualsiasi altro contesto legato agli acquisti. Tre domande da fare per sapere cosa si nasconde dietro ciò che compriamo.
1. Dov’è stato prodotto?
Come molti altri settori industriali, anche le grandi firme della moda negli ultimi anni hanno provveduto a delocalizzare i propri processi produttivi in paesi dell’est Europa o del sud est Asiatico (il Bangladesh su tutti) allo scopo di ridurre drasticamente il costo della manodopera e prendersi tutti i vantaggi di carenti tutele per i lavoratori e sindacati inesistenti. Negli ultimi anni però le aziende hanno fatto un passo in più: ad oggi infatti i grandi marchi sono totalmente estranei alla parte produttiva occupando solo il primo (la progettazione e il design) e l’ultimo step (la parte pubblicitaria e di vendita) della filiera commerciale. Chi produce al giorno d’oggi, è una serie di fornitori sparsi per Bangladesh, Cina, Brasile, Moldavia, Polonia, Repubblica Ceca, Cambogia e tanti altri. Le Grandi case della moda entrano in contatto con queste fabbriche tramite società che si occupano proprio della cura di questi rapporti e lanciano i propri ordini per stock di magliette, pantaloni, calzature e altri capi. Secondo un articolo del Washington Post il prezzo iniziale del prodotto sarebbe uguale per qualsiasi acquirente, mentre è soltanto il marchio a fare la differenza sul prezzo finale della vendita al dettaglio.
2. Chi lo produce?
E’ questa la più importante tra le tre domande da porsi in un centro commerciale: quali mani si sono adoperate per far arrivare quelle scarpe dell’ultima collezione sugli scaffali del tuo marchio preferito? Come vive, cosa mangia e a quali ritmi è abituato l’essere umano che spende la sua esistenza tra le mura di uno stabile industriale a migliaia di chilometri da te? Sempre secondo il quotidiano Statunitense il guadagno delle lavoratrici impiegate presso le industrie sarebbe totalmente indipendente dal marchio cui il proprio prodotto è destinato. Il problema alla radice è l’impiego di donne, bambini e uomini sottopagati, costretti dalla speranza di un miglior guadagno a lavorare sedici ore al giorno in strutture fatiscenti senza alcuna misura di sicurezza sul posto di lavoro. Spesso il problema è l’assenza di trasparenza nei rapporti tra grandi marche come H&M, Gap, Walmart, Zara e i produttori locali, per i quali vi sarebbero meno controlli soprattutto in virtù di un’intricata rete di subforniture.
Chi da anni si occupa della questione è la Clean Clothes Campaign (CCC), una ONG nata nei Paesi Bassi sulla finire degli anni ’80 ed oggi diffusa in ben 14 paesi Europei: sono state molte le battaglie portate avanti tramite una serie di report annuali, documenti e campagne. Attraverso le pagine del suo sito web si può scoprire cosa si nasconde dietro quello che compriamo, quali imprese siano maggiormente coinvolte nello sfruttamento minorile, quali invece abbiano intrapreso un percorso virtuoso rispetto al passato e soprattutto partecipare alle campagne di denuncia e sensibilizzazione sul tema.
3. In che condizioni lavora chi produce?
Nell’aprile del 2013 ha avuto luogo quello che è passato alla storia come l’incidente più grave della storia nell’industria tessile: il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani a Savar, una città del bangladesh, è venuto giù causando la morte di 1138 persone. Al di là delle controversie legali riguardanti le responsabilità dei marchi in affari con il complesso industriale su citato (Auchan, Walmart, Carrefour, Mango e Kik si sarebbero rifiutate di impegnarsi per il risarcimento alle vittime), quello che qui più interessa sono le conseguenze dell’evento: proprio la CCC, insieme ad altre Ong come l’International Labour Forum, Maquila solidarity e il Workers Light Consortium hanno stipulato un accordo internazionale sulla sicurezza delle strutture in Bangladesh. Tra i punti salienti di questo la pretesa ad un miglioramento delle condizioni igieniche e di sicurezza delle fabbriche, un supporto finanziario a chi non avesse le disponibilità economiche per apportare migliorie e uno stop ai rapporti commerciali con gli stabilimenti che non rispettano le norme. Il tutto sotto la lente di un apparato d’ispettori indipendenti, dato che proprio la corruttibilità di questi ultimi è sempre stata una grande piaga nella storia recente dell’industria tessile. All’iniziativa aderiscono circa 200 aziende, tra cui H&M prima acquirente nel mercato del Bangladesh e prima firmataria dell’accordo. CCC denuncia però, tramite un report pubblicato nel settembre scorso, come a distanza di due anni da quest’evento le cose non siano migliorate poi così tanto: prendendo a campione 32 fabbriche che la stessa nota marca d’abbigliamento definisce come “platinum and gold partners” lo studio condotto ha rilevato dopo due anni «518 violazioni dei requisiti di sicurezza strutturale, 836 violazioni della sicurezza antincendio e 650 violazioni sulla messa in sicurezza dei circuiti elettrici». Il tutto per una media di 62 violazioni a stabilimento.
Il dato potrebbe sembrare insignificante, ma purtroppo va considerato che H&M, con i suoi 229 partners industriali, è brand leader del Bangladesh e di conseguenza sono molti i marchi che percorrono le stesse orme del colosso Svedese. Proprio per questo motivo l’indagine condotta da CCC si è concentrata sulla famosa marca d’abbigliamento: cambiare chi sta alla testa per indurre al rispetto dei diritti umani anche aziende minori.
Ovviamente è molto complicato danneggiare queste grandi imprese a causa del bassissimo costo del loro prodotto sui mercati Europei. Oggi acquistare da artigiani o piccoli rivenditori ha un prezzo nettamente svantaggioso rispetto a questi grandi marchi e sarebbe necessaria una vera e propria rivoluzione culturale. Basterebbe chiedersi più spesso “cosa si nasconde dietro quello che compriamo?”. Un’obiezione di coscienza è possibile, dando un’occhiata a immagini come quella riportata qui sopra. Inoltre c’è da scommettere che a causa delle crescenti tutele richieste dai lavoratori dell’estremo oriente, le aziende tessili tornino a produrre in Europa, magari approfittando dell’ondata migratoria in corso. Le tre domande da fare prima degli acquisti conducono quindi ad un quesito finale, un punto interrogativo rapido e intuitivo che si erge ad antibiotico di quella forma patologica che oggi il capitalismo è: «Ho davvero bisogno di comprare questo prodotto?»