Per la Diesel il burqua è di jeans. Ed è subito bufera
I AM NOT WHAT I APPEAR TO BE (non sono ciò che sembro). Così recita la provocatoria campagna pubblicitaria Diesel, che sta creando polemica sul web e ben oltre. Ma cos’è che sembra? Una modella palesemente occidentale, nuda, tatuata quasi completamente, truccata a dovere che indossa un burqua, di jeans e ci guarda da quella che appare una tasca strappata.
Vuole rappresentare quindi il simbolo di una cultura che opprime le donne, o donne che in realtà indossano soltanto una maschera? L’opinione pubblica si divide e in parte si indigna. La pubblicità da tempo usa la contaminazione religiosa per far più rumore ma il burqua, per di più di jeans, sembra aver toccato un nervo scoperto della collettività. Strumentalizzare e banalizzare usi e costumi complessi, come quelli della realtà islamica, è stato definito “un vero e proprio atto di terrorismo, volto a scatenare reazioni forti da parte del mondo musulmano solo per aumentare il fatturato. Inoltre offende il senso religioso dei musulmani e ne deride la fede tramite la mancanza di rispetto per la donna”.
Silvia Layla Olivetti, fondatrice mestrina del Movimento per la tutela dei diritti musulmani, che rappresenta la comunità di cittadini italiani convertiti all’Islam, ha lanciato una secca risposta di indignazione: «Il titolo giusto per questa campagna è: “Il maschilismo si mette il burqa”. Siamo di fronte a un insulto al genere femminile privo di pudore, un trionfo di becero maschilismo travestito, e male, da pluralismo. Ancora una volta il corpo femminile viene svenduto e mercificato in nome del denaro. È avvilente vedere l’Islam che viene rappresentato negativamente» aggiunge Olivetti. «Se la donna musulmana non viene discriminata abbastanza nel quotidiano, ecco che la Diesel provvede ad insinuare dubbi sulla sua moralità sotto il velo». I musulmani, soprattutto i più integralisti, si sa, se la prendono un po’ per tutto. Pare che temano di essere coinvolti in complotto mondiale islamofobo.
La scarsa approvazione per quest’azzardata scelta del brand vicentino, non proviene soltanto dal mondo musulmano ma anche da tutti coloro che si chiedono fino a che punto possa spingersi la pubblicità. Se in amore ed in guerra tutto è lecito, lo stesso dobbiamo pensare allora della pubblicità? C’è davvero un messaggio forte, una provocazione, un punto su cui riflettere, o è soltanto l’ennesimo disperato tentativo del purché se ne parli? Le campagne realizzate per Jesus Jeans da Oliviero Toscani e Emanuele Pirella all’ inizio degli anni ’70, “Non avrai altro jeans al di fuori di me” e “Chi mi ama mi segua”, sono state le antesignane della contaminazione tra sacro e profano e crearono all’epoca uno scandalo senza precedenti. Lo stesso Toscani ha firmato poi la più recente campagna Benetton, nella quale figurava Papa Ratzinger preso a baciare sulla bocca l’imam del Cairo. L’opinione pubblica quindi non è a completo digiuno di questo tipo di contenuti ma a quanto pare ha mal digerito l’uso puramente commerciale di uno dei simboli della religione più discussa al momento. Non c’è rivoluzione in tutto questo. Nicola Formichetti, nuovo diretto artistico del brand, ha voluto così motivare la sua scelta: “Volevo trovare persone che riflettono la diversità della comunità artistica di oggi e non solo il modello standard”. Cosa non si farebbe pur di vendere qualche jeans in più.