È Stato la Mafia: Travaglio alla Sala Umberto racconta la trattativa Stato-Mafia
Al di là dei gusti personali e delle divisioni politiche è fuor di dubbio che il contributo di Marco Travaglio alla narrazione storica, politica e giudiziaria degli ultimi vent’anni, verrà riconosciuto in futuro, quando guarderemo questi tempi dall’alto del senno di poi, in tutta la sua importanza.
La sua sterminata produzione come saggista e giornalista, oltre al pezzo di storia della televisione iniziato come ospite di Luttazzi e scritto poi al fianco di Santoro, hanno contribuito a un successo di lettori, telespettatori e internauti che non ha probabilmente eguali in questo momento nel panorama giornalistico italiano. Il lavoro teatrale inizia nel 2009 con Promemoria e prosegue due anni dopo con Anestesia totale, fino all’ultima fatica È Stato la Mafia, in scena dal 24 Settembre al teatro Sala Umberto di Roma. Come per il lavoro precedente anche qui il testo vero e proprio è sostenuto dagli inserti più propriamente recitativi di Isabella Ferrari e gli accompagnamenti musicali di Valentino Corvino. La scenografia minima è composta da due poltrone rosse, la postazione del musicista con computer portatile a vista e un cavalletto dove vengono posti di volta in volta manifesti che ritraggono gli autori degli stralci letti dalla Ferrari: Gaber, Flaiano, Pasolini, Pertini e Calamandrei.
Travaglio stesso definisce la rappresentazione come un racconto teatrale più che uno spettacolo, sottolineando come lo scopo della messa in scena sia principalmente informativo: il pubblico lo sa, ascolta interessato e sembra gradire i passaggi dove la suggestione scenica da respiro al monologare del giornalista. Per le letture interpretate la Ferrari si affida a uno stile asciutto ed essenziale, chiaro ed esplicativo, adeguato per i passaggi di Pertini e Calamandrei, ma che non coglie l’umorismo amaro e la potenza espressiva originale del monologo di Gaber, viaggia almeno una nota sotto alla lucida ironia del pezzo di Flaiano e non rende onore alla passione del j’accuse pasoliniano. Corvino suona il violino e i bicchieri di cristallo, massaggia la tastiera e sfuma con effetti elettronici il rincorrersi di musica e parole. La storia della trattativa Stato-Mafia affonda le proprie radici alla fine degli anni 80 quando, a causa delle condanne del maxiprocesso, si incrina il rapporto di fiducia tra la cupola e il sistema di potere andreottiano in Sicilia, uno scandalo che, tra insabbiamenti e rivelazioni dei pentiti, arriva fino a oggi. L’ombra che esso getta su più di vent’anni di storia italiana accusa, con diversi gradi di responsabilità, governi e politici di tutti i colori, le più alte istituzioni dello Stato, i vertici delle forze dell’ordine e della magistratura. Una vicenda dalle implicazioni enormi, macchiata dal sangue di almeno quattro stragi, accertata nelle sentenze giudiziarie ma nascosta e rimossa, scientemente, dalla coscienza collettiva delle paese, di cui ascoltiamo in sala la metodica ricostruzione e lo scioccante disvelamento. {ads1} La logica di Travaglio è implacabile come sempre, i riferimenti controfattuali precisi e rigorosi, l’esposizione analizza la tragicità del tema lasciando che gli aspetti paradossali emergano con maggiore incisività, il sarcasmo del giornalista strappa risate amare. Giocando col pubblico Travaglio mette alla berlina l’inadeguatezza e la complicità intellettuale di coloro che, avendone il potere, avrebbero dovuto vigilare sulla trattativa e hanno finito con l’avallarla, coprirla e negarla per calcolo personale o presunte ragioni istituzionali, operando al di fuori di ogni quadro costituzionale. Ne esce il ritratto di una classe dirigente ridotta a un intreccio di ricatti incrociati, dove tutti sono compromessi e seguendo lo stesso criterio vengono selezionati i nuovi delfini. Ne esce, per l’ennesima volta nella nostra storia recente, l’immagine di Stato e Mafia gemelli siamesi, saldati l’uno all’altra in una zona grigia dove funzionari senza nome e picciotti portano messaggi tra i due corpi che si vorrebbero separati e contrapposti. L’applauso finale si potrebbe liquidare come quello di un pubblico informato che vuole essere ri-informato in un rito catartico e autoassolutorio, ma chi lo facesse non renderebbe giustizia alla verità decisiva che questi fatti gravissimi sono avvenuti, senza essere raccontati e soprattutto spiegati. Spiegati al tempo in cui, finalmente cittadini, avremmo potuto forse contribuire a impedirli. Rimane la memoria delle vittime delle stragi che, da Portella della Ginestra a Via D’Amelio, merita di essere perpetuata insieme alla denuncia tradita che ancora le accompagna.