Washington-Mosca: una partita a scacchi con in palio la Siria
Nessuna bandiera bianca in vista per la Siria che da 30 mesi è dilaniata da una guerra interna che continua a mietere vittime (i sondaggi recentemente diffusi parlano di 100 mila anime).
Le rivoluzioni Arabe del 2011 sono state il prodotto della decomposizione di un sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione del terrorismo: per far fronte alla minaccia di Al Qaeda sono stati rafforzati regimi autoritari e corrotti. Le esigenze democratiche sono state, dunque, sacrificate sull’altare della dittatura. In Siria l’intensità della repressione e la sua graduale trasformazione in guerra civile a carattere confessionale ha impedito che le forze armate si rivoltassero contro il presidente (com’è accaduto, invece, in Egitto). A dirigere il braccio di ferro che vede schierati da una parte il leader siriano Assad e dall’altra il Free Syrian Army diretto dal comandante Salim Idris, sono il Cremlino e la Casa Bianca, impegnati in una partita a scacchi a suon di finti colpi diplomatici. Dopo tre giorni di camera di consiglio, sembra che un accordo finalmente sia stato raggiunto: i primi ministri Lavrov e Kerry hanno approntato un piano, che ha ricevuto il via libera di Assad e che prevede la consegna entro il 28 settembre di una lista dettagliata dell’arsenale chimico del governo siriano che verrà prelevato, messo sotto controllo della comunità internazionale e distrutto entro il 2014 dall’Opac. Insomma, oltre 1000 tonnellate di materiale pericoloso sparso ai quattro angoli della Siria dovrebbe attraversare il paese dilaniato dalla guerra, essere riunito e successivamente schedato con il bene placito di un leader che sembra ne abbia fatto uso per controllare la popolazione meno di due mesi or sono.
Un’utopia forse più russa che americana visto che i colossi della Grande Mela una vittoria sembrano averla comunque riportata: l’articolo 42 del trattato redatto a Ginevra, parla infatti di un’azione militare per ristabilire la sicurezza internazionale, nel caso in cui le misure sopra riportate si rivelino inadeguate. Adesso tutto sta a capire se Putin e Obama facciano uso dello stesso vocabolario, visto che nel corso dei secoli (e delle guerre sopratutto), il termine ha assunto all’occorrenza molteplici significati. Un pedone vola, quindi a New York, ma il resto? Sulla scena globale il bilancio dei Putin sembra pendere nettamente a favore del Cremlino: prima la talpa Snowden che dopo aver svelato le contraddizione di un paese che si è sempre dichiarato liberale si rifugia a Mosca, il rifiuto della Merkel all’intervento siriano, seguito dal no del parlamento britannico che ha dato voce al risentimento dell’elite che nel 2003 aveva mentito pur di mandare le truppe militari in Iraq, i sondaggi dell’opinione pubblica made in Usa che segnano un netto calo del gradimento a Obama e infine l’autocrate del Cremlino che non si è fatto sfuggire l’occasione di infliggere al partner della Casa Bianca una lezione di teologica Realpolitik sulle colonne dell’americanissimo New York Times: “E’ pericoloso dire come fa Obama che l’america è una nazione eccezionale. Quando chiediamo la benedizione del Signore non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati tutti uguali”. Non male per una nazione che conta migliaia di adesioni all’Islam. Ma la partita è ancora aperta. E se la Russia sembra distratta dalle contestazioni dei metodi repressivi di Putin, dalla crisi economica e dalla fuga di capitali, non bisogna dimenticare che gli internazionali amanti della Vodka sono degli ottimi giocatori di scacchi, anche se, il Re sembra ancora lontano dall’essere catturato.