La vigilia interminabile di Obama
La parabola del potere del presidente americano si trova nel suo punto più alto, laddove il grado di responsabilità si fa sommo. L’eloquio raffinato e rassicurante sembra lasciare il posto ad una titubanza più umana e la coscienza, profittando dell’indugio, cerca dentro se stessa una difficile soluzione.
Sulle spalle di Obama pesa il gravame di campagne militari come l’Iran e l’Afghanistan inconcludenti e drammatiche; eserciti, che contano migliaia di morti, dispiegati su territori politicamente instabili, frammentati dalle diverse etnie che rivendicano ognuna interessi particolari, si trovano impossibilitati a favorire l’instaurazione di regimi democratici solidi. Non basta destituire il tiranno; non appare più credibile, soprattutto per l’opinione pubblica americana sempre più stanca e disincantata, l’idea che la potenza bellica americana se giustamente impiegata possa rappresentare una paradigmatica forza del bene. Un riluttante Obama ha chiesto così il voto e quindi il consenso al Congresso USA che in questi giorni, terminata la pausa estiva, ha ripreso i lavori. Nel frattempo l’UE sebbene riconosca la responsabilità del regime di Damasco per l’impiego di gas contro i civili è parsa ancora ambigua sulla scelta di un possibile raid risolutivo. Al coro di voci contrarie si è poi aggiunto l’accorato appello del Papa che nell’ omelia, di fronte a centomila persone radunate in piazza San Pietro per la veglia di preghiera per la pace, ha ricordato quasi fosse un grido che «con la violenza rinasce Caino e la guerra è sconfitta dell’umanità».
L’inquietudine immersa in una attesa sempre più gravida di incertezze si manifesta sul volto del presidente americano che appare sempre più sofferto e contratto; è quindi «un dilemma tragico quello a cui si ritrova davanti Obama» -sostiene Renzo Guolo su La Repubblica; «l’attacco in Siria rischia di produrre un effetto domino incontrollabile. A partire dal Libano» che continua ad inviare «nel campo di battaglia siriano delle milizie armate di Hezbollah». Il coinvolgimento dell’Iran , che recentemente si è detto pronto a difendere il governo di Damasco andrebbe poi ad «innestarsi» -prosegue Il sociologo Guolo- «sull’annosa vicenda della partita nucleare con Israele». Persino la concitata e ancora irrisolta vicenda egiziana contribuisce ad alimentare il complesso scenario arabo; l’estromissione dalla politica interna dei Fratelli Mussulmani ha avuto delle inevitabili ripercussioni in Siria dove la Fratellanza rappresenta «il nucleo centrale dell’opposizione armata ad Assad». Nel frattempo è impossibile ignorare la crescente e preoccupante forza del fronte jihadista e qaedista, reso ancora più minaccioso dalla cospicua presenza dei mujahidin provenienti dal paese iracheno.
Il quadro geopolitico particolarmente minaccioso rimane sospeso sul vuoto strategico americano; l’acuto analista Yagil Levy a tal proposito ha recentemente descritto la triplice ragione per cui un immediato intervento militare si iscriverebbe nella lista delle passate disfatte. Per prima cosa come era già successo in Libia e in Kossovo causerebbe migliaia di morti distruggendo inoltre le infrastrutture del Paese; in secondo luogo perché non sarebbe in grado di sanare il conflitto tra il regime e i ribelli ma con elevate probabilità rischierebbe di inasprirlo. Terzo perché si profilerebbe l’ennesimo “regime artificiale”, privo di autonomia e senza solide fondamenta.
È certo che di fronte a tutto questo L’America e con lei il suo presidente non possono con indifferenza defilarsi; urge un delicato e mobilitante ricamo diplomatico che possa coinvolgere anche le potenze asiatiche (Giappone, Cina e India); Obama ha la possibiltà di interrompere la sequela infausta di ciechi interventi militari e inoltre -come sostiene il noto politologo Berzezinski- di inserire « una risposta punitiva all’incredibile atrocità dell’attacco chimico contro civili siriani in una strategia più generale mirata a coinvolgere l’opinione pubblica mondiale in una condanna della guerra in sé» sino «a favorire l’emergere di una coalizione di Stati più ampia, accomunata dall’interesse di evitare una deflagrazione che coinvolgerebbe l’intera regione».