“I brutti anatroccoli” al Centrale preneste
Nell’ambito della rassegna Infanzie in gioco 2015/16 domenica 7 febbraio alle ore 16.30 il Teatro Centrale Preneste ospiterà lo spettacolo I brutti anatroccoli, portato in scena dalla Compagnia Teatrale Stilema. Ispirato al popolare racconto di Hans Christian Andersen, è scritto e diretto da Silvano Antonelli, al quale abbiamo rivolto alcune domande:
Chi sono i brutti anatroccoli?
Sono tutti e nessuno: è il sentirsi diversi da ciò che il mondo vorrebbe che fossimo, da ciò che viene considerato “normale”, dagli stereotipi che ci vogliono fare assomigliare a dei modelli preconfezionati. Per allestire questo spettacolo ho tenuto dei laboratori teatrali con bambini di scuola primaria sul concetto di “normalità” e così, dando loro voce, mi è sembrato di capire che tutti, ma proprio tutti hanno un “brutto anatroccolo” che dorme da qualche parte. Ed è proprio quello spirito che resiste al tentativo di farci diventare tutti uguali.
Il titolo rimanda alla fiaba di Hans Christian Andersen: quanto lo spettacolo si distacca da essa?
Andersen è ben presente nella filigrana e in molti passaggi dello spettacolo, sebbene il titolo della fiaba, “Il brutto anatroccolo”, si pluralizzi in “I brutti anatroccoli”, per cui la storia di uno diventa la storia di tutti. Si tratta di un classico e, come tutti i classici, contiene un qualche elemento universale che supera l’epoca in cui è stato scritto per parlare ai sentimenti permanenti dell’umanità. In questo senso lo spettacolo, proprio attraverso il tempo indefinito in cui un classico vive, tende a collegare quell’epoca passata al presente. Dunque analogamente alla fiaba nello spettacolo ci sono gli anatroccoli: da un lato quelli che vengono derisi; dall’altro quelli che si sentono belli, a cui comprano qualsiasi giocattolo o che sanno rispondere per primi alle domande della maestra, insomma abituati a “vincere sempre”. Ci sono quindi anche le stagioni che rappresentano le stagioni dei sentimenti: è autunno quando si diventa tristi, è inverno quando ci si chiude in sé stessi, è primavera quando torna la voglia di volare. Tuttavia lo spettacolo, a dispetto della fiaba, vive oggi, in questo grande stagno che è il presente.
Lo spettacolo è rivolto a bambini tra i 3 e i 10 anni: in un mondo fatto solo di “apparire”, quanto è importante educare le nuove generazioni all’”essere”?
Educare all'”essere” penso sia fondamentale. Tuttavia non penso si possa educare all'”essere” senza cercare di “essere”, senza farne esperienza e senza che, chi educa, ne costituisca l’esempio. Educare non è solo dire una cosa piuttosto che un’altra, non è solo enunciare un principio, ma è fare esperienza. Per questo penso che il teatro sia uno dei luoghi dell'”essere” per eccellenza: essere presenti, essere insieme, essere in ascolto gli uni degli altri e soprattutto essere in un luogo e in una dimensione in cui si condividono emozioni. I bambini, in questo, sono molto esperti: non consentono mai agli attori di “non essere”e infatti, quando gli attori “non sono lì”, i bambini giustamente fanno altro. Forse, allora, la questione si potrebbe ribaltare: non occorre più di tanto insegnare ai bambini a “essere”, loro sanno da sempre come si fa. Sono invece gli adulti e il mondo che dovrebbero imparare a non vivere nell”apparenza”, apprendendo questo proprio dai bambini stessi.
In quest’ottica quanto una favola di questo genere riesce a veicolare un messaggio morale?
Non so quanto un’opera debba o possa veicolare un messaggio morale. Un’opera teatrale può condividere l’emozione di vedere un anatroccolo che, per qualche motivo, si sente diverso dagli altri e trova la forza per riuscire a volare. Può sembrare poco, ma il “poco” del teatro è un “poco” che parla al profondo e soprattutto non parla con le parole, ma con la poesia. In questa dimensione penso che il messaggio morale che attraverso il teatro arriva possa, ancora e sempre, essere potentissimo.
È noto che Andersen metteva in relazione questa fiaba, e la sua morale, con la sua gioventù, nella quale egli si trovò spesso a essere emarginato e rifiutato come “diverso”, anche a causa delle prime manifestazioni della sua omosessualità. In relazione agli ultimi avvenimenti, qual è la vostra posizione a riguardo?
Gli “ultimi eventi” sono una delle tante declinazioni della difficoltà di accettare le tante diversità che colorano il mondo. Uno dei motivi per cui ho deciso di produrre questo spettacolo è proprio l’avere percepito che il tema della diversità e dell’inclusione, in questo momento storico, non è “uno dei temi” di cui si può parlare, ma “il tema dei temi”. Non fare i conti con l’idea che siamo tutti diversi gli uni dagli altri ci condanna alla paura e a costruire piccoli e grandi muri.
Per chiarezza voglio dire che non penso sia una cosa semplice e far finta che i problemi complicati siano semplici non rende giustizia all’intelligenza e non porta da nessuna parte. Ma penso anche che occorra andare oltre la paura e cercare di considerare gli altri persone, non concetti: sono storie, vissuti, gioie e dolori; sono piccole e grandi differenze.
Si può cominciare anche da piccole cose, anche piccolissime, persino dall’andare a vedere uno spettacolo per ragazzi e famiglie al Teatro Centrale Preneste.
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