Sopra Geologia di un padre di Valerio Magrelli

Geologia di un padre, ultima fatica letteraria di Valerio Magrelli, somiglia misteriosamente a una delle sculture uscite dalle ruvide mani del romeno Brancusi; entrambe possiedono l’essenzialità raggiunta attraverso il paziente e oculato lavoro dell’artigiano; entrambe testimoniano l’atto doloroso della scelta, che esclude, toglie, scarta e che diventa un poetico precipitato di bellezza, di verità. Il necessario si fa forma e significato, distillato inevitabile dei più reconditi desideri dell’artista.

 

Un’insolita prefazione apre al lettore la porta di questa intricata costruzione fatta di aneddoti, spaccati familiari che diventano spunto per riflessioni profonde e adamantine; una prefazione costellata di immagini disegnate con quel “ricchissimo talento figurativo” che il padre dell’autore, quasi reprimendolo, non aveva avuto il coraggio durante la sua lunga esistenza di assecondare fino a farlo diventare una professione. Un inizio che ha il sapore di un delicato riconoscimento, quello di un figlio ormai adulto e consapevole, che scopre come “non appena abbandonava il mondo della carta, il disordine faceva irruzione nella sua esistenza”. Un padre dunque che “viveva nei disegni delle case”, che per sopravvivere al suo personale ed incontrastabile fallimento si era ritagliato quel suo “habitat naturale…costituito dalle grandi tavole di progettazione” e che lo relegava in una sorta di immacolata bolla metafisica, così solo e protetto, da una ostile realtà cui “era assolutamente incapace di padroneggiare”. {ads1} Il libro appare come sofferta sintesi di quell’arcano insolubile che è il rapporto padre-figlio. La scrittura di Magrelli così aulica, così asciutta scansa con gentilezza la prosa analitica così comune al nostro tempo; per dieci densissimi anni l’autore conserverà in una cesta tanti foglietti di appunti, simili ad altrettanti pulcini pigolanti da sfamare perché “ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un infinita matassa di storie”. Ma lungo tutto il testo, dalla copertina che rimanda al pasto mitologico di Polifemo fino ad una delle splendide poesie in appendice, un linea invisibile traccia un canale sotterraneo dove scorre la vera ossessione del figlio-Magrelli: “equilibrare la fame/di chi dentro di me/si sporge e mi dilania”. Una sorta di timore legittimo che sorge all’inizio di ogni vero confronto con il proprio padre; che ci mette innanzi a quelle che sono le piaghe insopportabili del suo carattere e dalle quali, attraverso quell’intima e necessaria trasmissione che si opera, inevitabile appare ogni contagio. “La paternità” sostiene a ragione Levinas è infatti “una relazione con un estraneo che pur essendo altri è me”.
Poi un bel giorno può dover capitare di imbattersi in uno di quei grandi momenti dove, atteso dal destino, si iscrive quel doloroso salto evolutivo -che non rappresenta una guarigione certo, semmai un superamento- come quando l’autore sollevando il velo si specchia nella fragilità del proprio genitore; perché adesso che aveva compreso “di averlo superato nei gusti, nelle competenze, nelle informazioni”, sente che più nessuno potrà ripararlo ma sarà a lui a doversi “prendere cura di qualcuno”. Atroce, inattesa responsabilità.

Struggono invece le pagine del male implacabile che assedia come “una clausura neurologica” il corpo di un inguaribile iracondo; l’ictus lo tramortisce, il Parkinson lo sfinisce provocando in lui strazianti rigurgiti “d’odio per il mondo”. Una malattia che come mestamente descrive l’autore incrementa quell’ira che lo aveva sempre segnato fino a rodere ogni possibilità di giungere a quel sacro traguardo che a volte inutilmente attende ogni uomo: la maturità. Ma è la stessa malattia che lo aveva condannato tragicamente
ad aprire una provvidenziale fenditura nel suo essere attraverso cui guadare, prontamente sfruttata da un figlio che sbirciando nell’ormai indifeso spazio privato del proprio genitore soddisfa il desiderio -quello cioè di “conoscerlo meglio”- che finisce per rappresentare una sorta di terapia “come se la malattia dell’infermo avesse potuto costituire la guarigione dell’infermiere”.

C’è infine un’assenza, calco fantasmagorico dell’ineluttabile morte. Un’assenza che muove l’autore verso le sue remote origini che riposano stratificate ed immemori in terra di Ciociaria nel piccolo comune medievale di Pofi, “culla preistorica” dell’amato e odiato padre e mai visitata. Nel capitolo forse più freddo che contiene una erudita e concisa divagazione storiografica il ‘geologo’ Magrelli compie una indimenticabile scoperta; “la lontananza da mio padre mi appare geologica più che genealogica”. Dal non riconoscersi in quella figura così contraddittoria che il genitore aveva incarnato – “uomo depresso, Giove furente, Saturno profantropico…(eppure ironico, colto, curioso e affettuoso fino alla commozione, tenerissimo)- emerge un amore permeato da “un’unica differenza insanabile”; una sorta di iato entro cui scolpire faticosamente la propria identità, spazio che diventa sigillo evanescente di una nuova alterità.

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