LA NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO
Con la ordinanza n. 12810 del 23 maggio 2013 la Suprema Corte è stata chiamata a dirimere la controversia tra una Società, che si era vista obbligata a dismettere l’attività di vendita diretta dei prodotti vita con la conseguente soppressione della struttura dei “consulenti vita”, ed il lavoratore licenziato, per l’appunto un c.d. consulente vita.
Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione I Giudici chiariscono i principi ai quali il datore di lavoro deve uniformarsi quando sopprime, come nel caso esaminato, una struttura della sua azienda facendo venire meno i posti di lavoro.
A trovarsi senza impiego erano stati i dipendenti che si occupavano della consulenza sulla vita, settore al quale la S.p.a. aveva dovuto rinunciare.
Nella sentenza d’appello portata all’attenzione della Suprema Corte i giudici avevano validato le ragioni che avevano indotto l’assicuratrice a sopprimere uno dei servizi offerti alla clientela; la società non era però riuscita a fornire la prova dell’impossibilità di riassorbire i dipendenti licenziati offrendogli mansioni equivalenti.
La società riteneva dunque che i giudici non avessero considerato la validità dell’offerta formulata in favore del lavoratore a cui era stato prospettato un “reimpiego” come collaboratore autonomo. Per i giudici di merito e per la Corte di cassazione la proposta formulata dal datore di lavoro configurava una proposta inaccettabile, anche se l’unica soluzione possibile per evitare il licenziamento.
La Suprema Corte ha quindi censurato il comportamento della società che nel procedere al “repechage” si era limitata ad affermare l’impossibilità di offrire un ruolo di pari livello, «non avendo neppure ravvisato l’opportunità di affidare al lavoratore un mandato di agenzia e quindi mansioni equivalenti, così come invece avvenuto per altri dipendenti».
La Corte rammenta che l’onere della prova imposto al datore, in merito all’impossibilità di restituire al dipendente la vecchia posizione, benché debba essere interpretato con l’elasticità delineata dalla precedente giurisprudenza non poteva considerarsi assolto con la proposta formulata dalla datrice di lavoro.
Nella fattispecie esaminato il posto di sub-agente proposto al ricorrente era di natura non subordinata, esterna all’azienda e privo
di qualsiasi garanzia reale in termini di flusso di lavori e di reddito.