LA PROFESSIONE D’AVVOCATO RESTA INCOMPATIBILE CON IL LAVORO PART-TIME PRESSO UN ENTE PUBBLICO
Recentemente la Suprema Corte si è espressa in merito alla possibile compatibilità tra la professione d’avvocato e quella di dipendente pubblico.
La legge n. 339/03 reintrodusse il divieto, per il dipendente pubblico part-time di prestare, nel tempo libero, la propria opera come avvocato.
Ebbene, con la sentenza del 16 maggio 2013, n. 11833, il Supremo Collegio ha ritenuto “di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della legge n. 339/2003 per effetto della normativa sopravvenuta” e cioè le cosiddette liberalizzazioni (Dl 138/2011 convertito dalla legge 148/2011), “per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”.
Nella fattispecie i giudici della Suprema Corte si sono espressi circa la legittimità della delibera adottata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trapani, con la quale era stata disposta la cancellazione dall’albo degli avvocati per incompatibilità ex L. n. 339/2003 di un dipendente Comunale part-time del Comune di Trapani.
La delibera di cancellazione dall’albo degli avvocati, faceva seguito alla comunicazione fatta dallo stesso “lavoratore-avvocato”, con la quale, a seguito dell’entrata in vigore della L. 25-11-2003 n. 339 comunicava al proprio Consiglio territoriale di appartenenza di “optare per il mantenimento del rapporto di pubblico impiego a tempo ridotto ed al contempo di voler esercitare la professione forense”.
La legge del 2003, che riguarda nello specifico la professione di avvocato, all’art. 2 prevede che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base legge n. 662/96, possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego passando quindi stabilmente alle dipendenze della pubblica amministrazione a tempo pieno, ed il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego, prevedendo altresì che il dipendente conservi per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno.
Secondo la Suprema Corte “La legge n. 339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della PA. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della PA, ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni”.
E la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 390/2006, aveva rilevato che “il divieto ripristinato dalla legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”.