I The Pills conquistano il grande schermo
Il 21 Gennaio arriva nelle sale italiane Sempre meglio che lavorare, il primo e attesissimo lungometraggio dei The Pills, il trio di ragazzi romani tanto apprezzati sul web. Il film viene presentato come la risposta di Pietro Valsecchi alla domanda “dove mette tutti i soldi di Checco Zalone?”, i tre giovani sono infatti la nuova scommessa del produttore di Quo Vado, Amici come noi e I soliti idioti. I The Pills hanno, negli ultimi anni, conquistato il web e la gioventù romana grazie ai loro sketch sboccati e irriverenti, infarciti di citazioni colte e inconfondibile romanità. Sono diventati famosi senza inutili virtuosismi, una camera fissa, una cucina presumibilmente di casa loro e un’aspra ma sempre comica rappresentazione dei “nuovi giovani” della nostra società, i trentenni. Se torniamo indietro di appena una generazione e pensiamo a quella “dei genitori” a trent’anni si era presumibilmente sposati, con un posto fisso e un figlio in arrivo, oggi no. I trentenni di adesso sono Luca (Luca Vecchi), Luigi (Luigi Di Capua) e Matteo (Matteo Corradini), sono quelli che passano le giornate a “bere caffè e fumare drummini”, quelli de “la sveglia a mezzogiorno meno un quarto”, quelli che non si sentono più ragazzini ma non hanno alcuna voglia di piegarsi alla società e cercare l’agognato lavoro. Eterni Peter Pan, dissacranti e immaturi, che si ostinano a voler vivere come dei sedicenni e rimangono traumatizzati dai primi cedimenti fisici, vivono da soli e citano a sproposito Carmelo Bene salvo poi tornare a pranzo da mamma e papà perché non hanno i soldi per mantenersi. I The Pills fanno ridere perché rappresentano un qualcosa che esiste davvero, perché decidono di mostrare i trentenni squattrinati della periferia romana, senza tanti fronzoli, a differenza dei giovani che siamo soliti vedere negli schermi, fuori sede dall’aspetto sempre impeccabile che vivono in bellissimi loft nel centro di Roma. In Sempre meglio che lavorare si riconosce una generazione che vive quegli stessi problemi e quegli stessi luoghi, si riconoscono i giovani che la sera frequentano il Pigneto, quelli che non rinunciano al kebab di Ali Babà ad Arco di Travertino, quelli che l’occupazione del Mamiani se la ricordano con nostalgia e che considerano la Peroni del Bangla una delle poche certezze della loro vita.
I trentenni mucciniani guardavano al futuro con ansia e speranza, i The Pills fanno di tutto per non dover guardare in faccia un futuro che non ha niente da offrirgli, sono l’anti-morale, il massacro del senso di responsabilità, la geniale e brutale rappresentazione di chi in fin dei conti decide di non accettare di lavorare otto ore al giorno per trecento euro al mese e prova a fare ciò che lo diverte, e incredibilmente ci riesce. La strada non è stata probabilmente facile nemmeno per loro, nonostante adesso vengano considerati “arrivati”, Matteo confida che la gag del pranzo dai genitori rappresenta uno spaccato della sua vita, e indubbiamente se la loro generazione può permettersi di rifiutare ad ogni costo qualsiasi forma di lavoro è perché qualcuno prima di loro quel lavoro lo ha accettato e può permettersi oggi di mantenerli. Dietro l’ironia, il sarcasmo e la sfrontatezza dei The Pills si scorge uno spazio di riflessione, in cui l’interrogativo ricorrente è: chi manterrà i figli di chi dice “sempre meglio che lavorare”?
Luca, Matteo e Luigi si conoscono fin da piccoli, e ancor prima di sapere cosa volesse dire “posto fisso” si sono promessi di non cadere mai nella trappola del lavoro, il problema arriva quando, alla soglia dei trenta, ognuno a modo suo, sono portati a cadere in tentazione. Luca ad una festa conosce Giulia (la bravissima Margherita Vicario), che un po’ per gioco gli fa provare una nuova “droga”, il part-time. Nonostante le iniziali resistenze alla fine il giovane cede, prova cosa vuol dire lavorare e non riesce più a smettere, diventando scontroso, nervoso e solitario come ogni bravo drogato. Luigi è entrato in “crisi di mezza età” quando ha capito che ahimé anche alla fine dei venti il fisico comincia a subire qualche cambiamento, le sbornie sono sempre più difficili da smaltire e l’euforia dei sedicenni non si riesce più a condividere. Matteo si scontra con un padre che decide, come lui, di inseguire le sue velleità artistiche, che per quanto appassionanti non riempiono la pancia di una famiglia. I tre devono attingere a tutte le loro forze per rimanere nel loro magico mondo in bianco e nero in cui tutto è possibile e il futuro non può macchiare con le sue tinte il loro stato di nullafacenza. Con Sempre meglio che lavorare si inaugura un nuovissimo realismo, vincente perché gli attori non interpretano altro che sé stessi, facendo entrare a gamba tesa nelle sale cinematografiche i loro luoghi, il loro linguaggio, e tutte quelle immagini e influenze di cui si sono cibati crescendo davanti a una televisione. Un “battesimo del fuoco”, come dice Luca Vecchi, molto impegnativo e faticoso, soprattutto per chi di lavoro non ha mai sentito parlare, una colonna sonora in linea con lo stile del film, che ha preferito abbandonare le vecchie glorie per dar spazio agli artisti giovani, quelli realmente presenti negli i-pod dei giovani romani, quelli in grado di raccontare questo periodo e questa generazione. Questi “figli degli anni 80 e 90” sfornano un film che non delude chi è abituato a seguirli su Youtube da anni, sicuramente più difficile in termini di comprensione ed identificazione vendere questo prodotto a chi non appartiene alla scena romana o a chi ha superato i trenta scegliendo il comodo posto fisso. Il film si chiude con l’ironica riflessione sulla “cicorietta ripassata”, tanto odiata da bambini ma poi rivalutata da grandi, simbolo della necessità di provare ad apprezzare anche ciò che si è sempre respinto, purtroppo, come ricorda Luca Vecchi, “la cicoria non ti uccide, ma le velleità forse sì“.