La Siria tra le macerie di un conflitto senza fine

Ghandi nella sua consueta preghiera del mattino, dal suo esile corpo vestito di silenzio, lasciava partire ogni santo giorno, come vento sospinto dalla speranza, un’ umile richiesta: quella di potersi “immaginare la sofferenza degli altri” per poter meglio comprendere il mondo.

Non è facile affermare se oggi sia il mondo ad esser diventato più complesso o se invece sia solo colpa di un’immaginazione dalle ali ferite, ferite dai colpi continui della banalità. Forse entrambe le cose rendono più ardua la lettura delle molte drammatiche vicende che inondano di sangue il nostro pianeta. Il conflitto in corso da qualche anno in Siria ne è un terribile esempio.

Serviva la visionarietà di una mente profetica, per immaginare quello che sarebbe scaturito dalle dimostrazioni pubbliche, iniziate il 1 marzo 2011 da parte dell’opposizione contro le forze governative del presidente siriano Bashar al-Assad; era difficile ipotizzare infatti, che le rivolte si sarebbero tramutate appena un anno dopo in una cruenta guerra civile che sembra non avere fine. Il nobile obbiettivo dei manifestanti, era quello di spingere il capo dello stato siriano ad attuare le riforme necessarie per dare un volto più democratico al loro paese. Il governo si era difeso sostenendo che le loro intenzioni erano invece quelle di instaurare uno stato islamico radicale, vista la presenza nel Consiglio Nazionale Siriano dei Fratelli Mussulmani e altri gruppi legati all’Arabia Saudita ed al Qa’ida. Risultato: nel corso di questi mesi i ripetuti scontri tra gli attivisti e le forze di polizia, hanno causato migliaia di vittime. Non si può certo dimenticare nell’agosto 2012 quando l’esercito governativo ha addirittura messo in campo l’aviazione, lanciando missili sui quartieri residenziali nelle periferie di Damasco e facendo perdere la vita nell’arco di un solo giorno a ben quattrocento persone. Il conflitto ha coinvolto inoltre la partecipazione di altri stati; Qatar, Arabia Saudita Giordania e Turchia continuano a sostenere con materiale e attrezzature le forze ribelli mentre il governo siriano riceve dalla Russia e dall’Iran strumenti ed armi, oltre a uomini di Hezbollah provenienti dal Libano. È bene ricordare inoltre quanto la vicenda avesse preoccupato il presidente Obama che aveva promesso, qualora il governo siriano avesse impiegato armi chimiche e batteriologiche contro i civili, un immediato intervento militare da parte degli Stati Uniti d’America. In questi giorni il consiglio di sicurezza dell’ONU, radunatosi proprio a proposito della crisi siriana, attraverso la voce del suo vice segretario Ivan Simenovic, ha reso noto quanto fosse ” estremamente alto il tasso dei morti”: cinquemila al mese. Anton Guterres, Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati ha invece fatto sapere quanto sia critica per i quasi due milioni di profughi siriani la situazione, considerata la peggiore dal genocidio del Ruanda del 1994. Il rischio è che tutto questo come accade ormai per molti conflitti bellici finisca per diventare un conteggio sterile che non scuote le nostre coscienze così indifferenti e che raffreddi totalmente la nostra, ormai abulica, immaginazione.

A volte basterebbe soffermarsi su una delle tante immagini che descrivono gli atroci scenari di guerre e lasciarsi penetrare dal suo ingombrante significato; scopriremo lentamente e non senza qualche spiacevole sussulto interiore come cominciano ad affiorare domande, interrogativi che corrodono le nostre insulse certezze. Cosa prova l’uomo nella foto sopra, con quel suo mesto sguardo rivolto verso il basso? È certo un’enorme responsabilità camminare sulle macerie del proprio paese. La sua schiena leggermente ricurva ne accentua la greve pensosità. Forse lo ossessiona l’idea di non riuscire a contenere i ricordi di ciò che la guerra come uno spietato uragano ha spazzato via; o forse più tremendamente, paventa lo sgretolarsi della sua fragile identità dopo la rapida caduta dei molti riferimenti che ne avevano permesso la costruzione. Commuove la sua solitudine inconsolabile, intrappolata in un presente disintegrato; rattrista quel passo inquieto, nervoso, che si illude di fuggire da ciò che inesorabilmente, come un marchio infuocato, ha inciso la sua anima. È uno dei tanti volti oscuri della guerra che come scriveva Simone Weil con la sua violenza “stritola quelli che tocca”.

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