I fatti di Riyad anticamera di un conflitto su scala mondiale?
È storia di tre giorni fa la diffusione della notizia da parte del regno Saudita di aver dato il la all’esecuzione di 47 prigionieri accusati di terrorismo. Un tribunale di Riyad avrebbe dato il via libera all’esecuzione a conclusione di un processo definito «politico e viziato da gravi irregolarità» da un comunicato di Amnesty International. Tra i numerosi giustiziati ha lasciato dietro di sé un notevole eco la presenza dell’imam Nimr al Nimr, reo secondo i Sauditi, di aver fomentato nel 2011 movimenti secessionisti nell’est del Paese.
Le reazioni nei Paesi di matrice sciita non si sono fatte attendere: molto duri sono stati gli attacchi della popolazione all’ambasciata e al consolato saudita rispettivamente nelle città di Teheran e Mashaad. Gli edifici sono stati dati alle fiamme, ponendosi quale simbolo di un’ondata di proteste che si è sprigionata anche in altri paesi del medio oriente (come Iraq, Bahrein e Libano).
Gli attacchi hanno suscitato la ferma condanna dell’ONU che attraverso un comunicato ha invitato Teheran a proteggere sedi diplomatiche e relativo personale. Nel frattempo il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha annunciato che sabato prossimo si terrà a Riyad un vertice straordinario per discutere degli attacchi alle sedi diplomatiche saudite sul territorio iraniano. La situazione in tutta la regione è pericolosamente instabile visto che varie nazioni hanno deciso a catena di interrompere i loro rapporti con la Repubblica islamica a est del golfo Persico: dopo il blocco imposto dai Sauditi ai voli civili da e per l’Iran e quello posto agli scambi commerciali, si sono aggiunti anche Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Sudan e Kuwait, tutti impegnati ad interrompere tempestivamente i rapporti diplomatici con Tehran.
Dal canto suo l’Iran ha risposto a queste azioni politiche definendo le alleanze regionali dei sauditi effimere e inconsistenti se confrontate con le relazioni mondiali che Tehran ha cominciato ad intrattenere negli ultimi tempi: stando alle dichiarazioni del portavoce di governo Mohammad Baqer Nobakht «una delegazione di 60 importanti esponenti europei sarebbe già a Tehran per rafforzare legami e collaborazione con l’Iran».
Durante un incontro con il ministro degli Esteri danese a Tehran, il presidente iraniano Rouhani ha inoltre condannato il gesto attuato da Riyadh, appellandosi all’attenzione che da sempre gli europei riservano per la tutela dei diritti umani: un’uscita alquanto infelice per chi è capo di una nazione che nel solo biennio 2013-2014 ha dato luogo a ben 658 esecuzioni. La sensazione (ma ognuno è libero di sviluppare una propria linea di pensiero) è che l’accenno di escalation innescato dalle dichiarazioni del ministero dell’Interno saudita di sabato scorso (quelle sulle avvenute esecuzioni, ndr), sia l’ennesima pedina spostata su uno scacchiere che vede una partita sempre più a senso unico: una resa dei conti finale tra i due attori protagonisti, Iran e Arabia Saudita.
Le popolazioni locali sono mosse da anni da propaganda religiosa e politica e le primavere arabe sono state soltanto l’ultima di molteplici espressioni del fenomeno. Primavere che i civili di tutto il medio oriente stanno oggi pagando a caro prezzo, dopo essere stati illusi da social network e speranze democratiche. A quasi 5 anni di distanza rischiano (e i civili dello Yemen, colpevoli di essere nati in un territorio commercialmente strategico, questi rischi li stanno già pagando a caro prezzo) di ritrovarsi al centro di un conflitto mondiale, visto che tutte le potenze regionali sono appoggiate da altrettante coalizioni internazionali. Un conflitto che non si vede ma che già esiste: Iraq, Siria, Nigeria, Libano, la questione della Palestina, Mali e tanti altri focolai frammentati allontanano le nostre coscienze dalla realizzazione che è in atto una vera e propria guerra mondiale, sia per numero di morti che per quello di armi impiegate