E l’eco rispose di Khaled Hosseini

Forse tra i bisogni primari e inestinguibili dell’uomo, possiamo annoverare quello di raccontare storie; insopprimibile come il suo bisogno gemello, “bambinesco”, di sentirsele narrare. Ma qual è dunque il movente che si cela dietro quell’atto misterioso che è la scrittura?

 David Grossman lo identifica con “l’aspirazione a rimuovere quella parete divisoria, per lo più invisibile, che ci separa dal prossimo”, esponendoci così, alla “radiazione della sua interiorità dentro di noi”. Nel suo ultimo libro, E l’eco rispose, come del resto nelle sue precedenti fatiche, Khaled Hosseini dimostra di seguire fedelmente tale aspirazione, restituendoci uno dei racconti più belli e più intensi degli ultimi tempi. Non muta la sua ambientazione, l’Afghanistan, la culla della sua ispirazione. In tutti questi anni lontano dalla sua terra d’origine, Hosseini ha seguito con viva partecipazione le sorti del suo paese, dilaniato dal 1973 a oggi, da un susseguirsi di invasioni straniere, lotte intestine e fratricide; ha ascoltato le confessioni di donne violentate da una cultura tribale feroce e gretta; ha assistito impotente alla ingiusta deflorazione di tante infanzie spezzate dalla guerra. L’autore ha dunque abbattuto nel corso della sua esistenza quel “muro invisibile”, ospitando dentro sè, una pluralità di voci che abilmente, come un navigato direttore di coro, ha diretto nei suoi romanzi. La trama della sua ultima opera raccoglie infatti una fitta galleria di ritratti; ma due sono in realtà i veri protagonisti di questa storia. {ads1} Tutto ha inizio in un piccolo villaggio di nome Shadbagh, dominato dalla povertà e da una implacabile aridità; un padre con i suoi due figli è in cammino verso Kabul. Presto le vite di questi ignari fanciulli, orfani di madre e “legati da una speciale affinità“, saranno divise. Pari la figlia minore di soli tre anni, andrà a vivere nell’agiatezza, incontro a un futuro migliore in una casa benestante di Kabul, dove lo zio Nabi, fratello della matrigna Parwana, lavora come domestico. Abdullah invece sarà costretto a fare i conti per tutta la sua vita con “un fardello molto pesante”, quello della lancinante mancanza della sorella. Nello spazio di quello che sembra essere il terzo silenzioso protagonista, e cioè l’assenza, si avvicendano una serie di personaggi; una sorta di vocabolario dei sentimenti. Fra tutti la poetessa emancipata, Nila, amante del jazz a cui Pari viene affidata; donna instabile e irrequieta che per difendere la loro libertà sarà costretta a trasferirsi con la piccola a Parigi. Durante la loro assenza la loro casa, con i suoi mobili istoriati e i suoi magici tappeti, lascerà ai ricordi la sua bellezza, spazzata via dalla guerra e dalla malattia; dai militari e dagli stranieri che verranno in soccorso della popolazione. Fanno da contraltare i due cugini Timur e Idris residenti in California, che incarnano la visione delle tante persone fortunate che hanno trovato una sorte migliore lontano dall’Afghanistan e non hanno subito il trauma delle bombe e della guerra ma che, grazie al cinema e ai libri, hanno potuto raccontarlo. Attraverso le vicende tormentate di questa famiglia, Hosseini, ripercorrendo un arco di tempo che va dal 1950 ai giorni nostri, abitato da ben tre generazioni, “aggiunge un nuovo tassello alla storia del suo popolo, risalendo lungo i rami più contorti del suo albero genealogico, come avviene nei testi sacri di ogni religione”. 

Abdullah e Pari non hanno commesso quel peccato di cui Nila si sente portatrice poche ore prima di togliersi la vita: la disattenzione. Non hanno potuto scegliere; solo subire una scelta di un destino tanto crudele. Al lettore il compito di ascoltare nel finale quel suono di un’eco sottile, straziante che darà voce a un uomo, Abdullah, al termine dei suoi giorni “consunto e smarrito”, ormai pronto a lasciare dietro di sè, il sentiero su cui si sono depositatin”minuti frammenti scintillanti che la vita gli ha strappato”.

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