L’Egitto e la rivoluzione parziale

L’arte si sa è suprema sintesi; rifiuta categoricamente qualsiasi elemento che possa minimamente offuscare o far perdere d’efficacia il suo messaggio. È semplice. Come il murales che qualche mano visionaria ha dipinto in una delle tante strade egiziane affollate dai contestatori e che sembra meglio di tante complicate analisi politiche illustrare la pesante situazione che affligge il più grande paese arabo.

Due mezzi volti congiunti, due sguardi sinistri e torbidi, quelli di chi ha esercitato negli ultimi anni il potere e che ha falciato le speranze del popolo egiziano, trascinandolo tragicamente verso il baratro.

Sono trascorsi poco più di due anni dalle dimissioni dell’ex presidente Mubarak che per quasi trent’anni, merito di una costituzione obsoleta, ha governato il paese; due anni dalle rivolte, i balli e le feste di piazza Tahrir, simbolo di un processo di rinnovamento politico che sotto il nome di “primavera araba” aveva riacceso gli entusiasmi di molte persone schiacciate dalle politiche repressive di un governo dittatoriale. L’insediamento di Morsi, esponente politico di una delle più potenti organizzazioni islamiste internazionali caratterizzata da un approccio di stampo politico all’islam, non ha mutato le sorti di un paese così travagliato; anzi ha esasperato problematiche sociali e politiche che sono state affrontate con la stessa incompetenza che aveva segnato il governo autoritario di Mubarak. La violenza contro le donne, i linciaggi ai danni di una comunità sciita, gli arresti degli oppositori, le tante torture e sparizioni hanno inoltre fatto vedere l’atteggiamento antidemocratico, questa volta ammantato da una stucchevole “patina religiosa”.

La destituzione coatta dell’ultimo presidente egiziano, avvenuta con un golpe militare pochi giorni fa ,sembra però confermare lo status quo: ancora violenza. A farne le spese questa volta gli stessi sostenitori del deposto raìs Morsi: cinquanta le vittime.
Come ha giustamente sottolineato in una recente intervista al Corriere della Sera, il politologo Fareed Zakaria: «le violenze e le repressioni di queste ore dimostrano che chi ha il potere in Egitto non è interessato a restaurare libertà e democrazia non più di quanto lo fosse Mohammed Morsi. Anzi, più continua l’ondata di arresti, violenza e misure contro i media, più si ha l’impressione che il vecchio complesso militare di Mubarak risorga sulle ceneri della democrazia».

Dispiace assistere allo spettacolo di un popolo ferito da anni di repressione e che sembra essere stretto nella morsa di dinamiche politiche ripetitive che soffocano qualsiasi volontà di rinnovamento. Il programma di transizione disegnato dal presidente Adly Mansour che vede rivestire la carica di premier l’economista el Beblawi ha ricevuto un secco ‘no’ dai partiti d’opposizione; sia il movimento Tamarrod, organizzatore della rivolta del 30 giugno, sia il Fronte di salvezza nazionale hanno lamentato la loro esclusione dalla consultazione, mentre i Fratelli mussulmani dopo aver presidiato alcune zone rivendicano il reinsediamento del loro leader Morsi. La rivoluzione egiziana, riuscita solo a metà, ci consegna un Egitto pieno di fratture, costretto di nuovo a chinare il capo, avvolto nella sua impotenza da una preoccupante e fragile calma apparente.

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