Maternità surrogata: l’utero è mio ma lo gestiscono le femministe
Stefania Sandrelli e Claudio Amendola. L’ex presidente di Arcigay Aurelio Mancuso e le suore Orsoline di Casa Rut a Caserta. Micaela Ramazzotti, Claudia Gerini e (per ora) altri trecentoventi firmatari. Intellettuali, attori, giornalisti, membri della società civile e dello spettacolo: l’elenco di chi ha condiviso l’appello delle donne “Libere” di Senonoraquando è lungo e variegato.
Dopo la presa di posizione di alcune femministe francesi, anche alcune femministe italiane si sono schierate contro quello che è spesso definito in maniera sprezzante “l’utero in affitto”, chiedendo all’Europa di bandirlo. “Alcune”, non tutte le femministe d’Italia, come potrebbe far erroneamente pensare l’appello pubblicato su Repubblica.it Femministe contro la maternità surrogata. Un titolo che la dice lunga, perché, come ha fatto notare Chiara Lalli su Internazionale, «la presunzione di incarnare l’universo femminista è la stessa di decidere al posto di qualcun altro senza nemmeno chiedergli il parere».
La surrogacy, per “le femministe”, non è un diritto, né «un atto di libertà o di In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: “committenti” italiani possono trovare in altri paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarca ma del mercato. Vogliamo che la maternità surrogata sia messa al bando».
Sfruttamento, donne-oggetto, bambini come merci. Non c’è scelta, non c’è la consapevolezza di una donna che decide in tutta coscienza: solo costrizione e corpi femminili trasformati in mezzi per soddisfare i capricci di individui egoisti. Individui che l’appello identifica principalmente – forse inconsapevolmente? – con gli omosessuali («siamo favorevoli al pieno riconoscimento dei diritti civili per lesbiche e gay, ma diciamo a tutti, anche agli eterosessuali: il desiderio di figli non può diventare un diritto da affermare a ogni costo»), dimenticando che l’80% delle coppie che ricorrono alla gestazione per altri sono eterosessuali.
Oggi, prosegue l’appello di Snoq Libere, «per la prima volta nella storia, la maternità incontra la libertà. Si può scegliere di essere o non essere madri». Invece, scegliere di mettere al mondo il figlio di qualcun altro non si può. La buona vecchia regola “l’utero è mio e lo gestisco io”, evidentemente non vale più. L’utero è delle donne, ma non possono decidere in piena libertà cosa farne. Che ci sia anche un mercato che approfitta di donne che in Paesi come l’India non hanno mezzi, né quelli economici né quelli che permettono di decidere consapevolmente, non significa che la maternità surrogata sia da bandire. E lo dimostrano, più di tanti teoremi o proclami, le parole che Tara Bartholomew, l’”utero in affitto” che ha fatto nascere i figli del giornalista Carlo Rossi Marcelli, ha rilasciato al Corriere della Sera. Le parole di una donna, moglie e madre, che ha deciso, liberamente e senza costrizioni, di mettere il proprio corpo al servizio dell’amore di qualcun altro. «Non diventerò mai presidente, non troverò la cura del cancro, ma questo era qualcosa che potevo fare per cambiare la vita di qualcuno. Non avevo idea di quanto avrebbe significato anche per me».
Non si tratta semplicemente di “veterofemminismo”, come qualcuno ha cercato di liquidarlo. Si tratta dell’ennesima forma di un paternalismo che vuole spiegare alle donne come devono percepire e vivere il proprio corpo. Come devono percepire e vivere se stesse. Negando loro, di fatto, quella libertà per cui dicono di battersi. L’appello non arriva in un momento qualsiasi. Quando (se?) il Ddl Cirinnà sulle unioni civili arriverà finalmente in Parlamento, sul riconoscimento della stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner) si giocherà la battaglia di chi di riconoscere i diritti ai gay non ne vuole sapere. Chi si oppone alle unioni omosessuali agita da mesi lo spauracchio della stepchild adoption, che aprirebbe la strada alla pratica dell’utero in affitto e alla “famiglia omosessuale”, e la possibilità che la norma venga stralciata per far passare una versione ancor più blanda del riconoscimento di quelle che qualcuno voleva definire “formazioni sociali specifiche” potrebbe diventare una drammatica realtà.
Ancora una volta, però, ad anticipare la politica è stata la magistratura: la Corte d’Appello di Milano ha definito legittima la trascrizione dell’adozione “piena e legittima” di una bambina di dodici anni da parte della compagna della madre perché la bambina «è stata adeguatamente amata, curata, mantenuta, educata ed istruita da entrambe le donne che hanno realizzato l’originario progetto di genitorialità condivisa, nell’ambito di una famiglia fondata sulla comunione materiale e spirituale di due persone di sesso femminile» e che la «adozione piena» corrisponde al suo interesse.