Razzismo virtuale, conseguenze reali

Immaginate di svegliarvi una mattina, aprire la finestra e trovare davanti alla porta di casa un cartellone gigante che riporta un commento razzista che avete postato su Internet. Il vostro volto è nascosto, il vostro nome non si legge, ma chiunque può sapere che siete stati voi a scrivere quella frase. Se poteste tornare indietro, ci pensereste due volte prima di scrivere quel commento o no?

 

A qualcuno è successo davvero. La ong brasiliana Criola, un’organizzazione che si batte per i diritti civili, nelle ultime settimane ha deciso di combattere l’idea che quello che accade su internet appartenga a una sfera diversa da quella reale con una campagna originale e straordinariamente efficace, Virtual racism, real consequences. Dopo aver rintracciato i commenti razzisti postati sui social e averli localizzati tramite la geolocalizzazione, l’associazione ha chiesto aiuto alle società che forniscono i cartelloni pubblicitari per mostrare ai razzisti da tastiera che tutto quello che pubblicano può tornare indietro. L’idea è nata quando la conduttrice televisiva Maria Julia Countinho è stata vittima di attacchi xenofobi dopo la pubblicazione di una foto sulla pagina Facebook del programma.

 

Un attacco che si è scatenato non in un giorno qualunque ma il 3 luglio, la giornata contro le discriminazioni razziali. Per questo, quelle offese sono state stampate a caratteri cubitali e installate accanto alle abitazioni degli autori, che hanno potuto leggere – come i loro vicini, amici e conoscenti – le loro parole gentili. Capolavori come: «Vai a farti fottere sporca negra, non so te ma io mi lavo», «Una ragazza nera di nome “Maju”? Non puoi lamentarti dei pregiudizi. Vai a farti fottere», «Se avesse fatto il bagno per bene, non sarebbe stata sporca», «Sono arrivato a casa puzzando come i neri». Parole scritte da persone che si nascondono dietro uno schermo e una tastiera, inconsapevoli o disinteressate degli effetti che quelle parole possono avere.

 

La riflessione che Criola vuole sviluppare nasce proprio da questo interrogativo: «I commenti su Internet creano meno danno di un’offesa diretta?». Una domanda semplice, che ha una risposta altrettanto semplice: «Per quelli che commentano, forse. Ma per quelli che li subiscono, il pregiudizio è lo stesso».

Anche dal nostro lato dell’oceano, però, non mancano le iniziative – sebbene più “tradizionali” – per combattere l’intolleranza su internet e sensibilizzare gli utenti – soprattutto quelli più giovani – sulla pericolosità del “cyber” razzismo e del “cyber” bullismo. No Hate Speech è una campagna del Consiglio d’Europa che si batte contro l’istigazione all’odio sul web, ovvero contro l’«espressione di tutte le forme di diffusione e incitazione all’odio razziale, alla xenofobia, all’antisemitismo e ad altre forme di intolleranza, espressione di nazionalismi, discriminazione nei confronti di migranti. Altre forme di discriminazione sono la misoginia, l’islamofobia, la cristianofobia e tutte le forme di pregiudizio circa l’orientamento di genere». Atti violenti contro “il diverso” che continuano ad aumentare pericolosamente – possiamo vederlo quotidianamente sulle nostre bacheche Facebook e tra i cinguetti di Twitter – cui il web sembra garantire una maggiore impunità. Un’impunità che si rafforza nella convinzione degli autori che le loro parole si perdano nel mare magnum del web, senza conseguenze.