Il prezzo della lotta al terrorismo è la nostra libertà?
Cosa saremmo disposti a fare per combattere il terrorismo? La domanda, dopo la carneficina di Parigi, è di nuovo in cerca di una risposta. Molti saranno tentati di rispondere «qualunque cosa» e questo potrebbe sembrare legittimo, logico. In nome della lotta al terrorismo e per riconquistare quella sicurezza che sentiamo perduta, però, rischiamo di perdere qualcosa di molto importante: i nostri diritti e la nostra libertà.
Che la paura e lo shock successivi a un attentato terroristico siano un terreno fertile per leggi liberticide lo ha dimostrato l’11 settembre. Il Patriot Act – che pochi sanno essere l’acronimo di Uniting and Strenghtening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001 – emanato a tempo di record dopo gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono, ha dato per quattordici anni a FBI, CIA e NSA un potere pressoché illimitato e un’ingerenza fortissima nella vita dei cittadini. Intercettazioni telefoniche, controllo delle e-mail, delle cartelle cliniche, delle transazioni bancarie, raccolta delle impronte digitali degli avventori delle biblioteche. L’era nera del controllo di massa in America – che si è mostrato in tutta la sua potenza nelle rivelazioni rilasciate al Guardian da Edward Snowden nel 2013 – è tramontata il 1° giugno di quest’anno, quando il Senato non ha trovato l’accordo sulla sua proroga. Qualcuno, però, in Europa sembra non aver imparato la lezione.
Mentre dall’altra parte dell’oceano attivisti, giudici e critici si battevano per l’abolizione di una legge anti-democratica colpevole di privare i cittadini della loro privacy –limitando quindi la loro libertà di esprimersi liberamente – nel Vecchio Continente la discussione sulla necessità di concedere ai servizi di intelligence poteri più ampi per combattere il terrorismo riprendeva vigore sull’onda degli attentati alla redazione parigina di Charlie Hebdo e al supermercato ebraico HyperCacher. Il “Grande Fratello”, infatti, si è spostato in Spagna e Francia, i cui rispettivi governi, con l’appoggio dei Parlamenti, hanno promosso un processo legislativo di lotta al terrorismo che minaccia di limitare fortemente la libertà dei loro cittadini. A pochi giorni dalle stragi di Parigi, popolari e socialisti spagnoli si sono accordati «per rafforzare l’unità in difesa della libertà e della lotta contro il terrorismo», dando vita al “Patto contro il terrorismo jihadista», approvato alla fine marzo dalle Cortes. Una riforma contestata, che non si limita ad allargare lo spettro dei crimini identificati con il termine “terrorismo” e a restringere la libertà d’espressione dei cittadini, ma che ha introdotto addirittura il reato di “indottrinamento passivo”. Anche la semplice visita di siti «che contengano informazioni che possono “incitare altri” a commettere crimini di terrorismo» potrebbe costituire di per sé un reato, con pene che possono arrivare fino a otto anni di reclusione.
La Spagna di Rajoy, però, non è stata il solo Paese ad approvare – in tempi brevissimi e con un consenso bipartisan – un provvedimento accusato di ridurre i diritti dei suoi cittadini in nome della lotta alla Jihad. Approvato in un’unica lettura da entrambe le Camere francesi – visto il carattere di «urgenza» – il testo di riforma dell’intelligence ha ricevuto il via libera della Corte Costituzionale il 25 luglio, mentre attivisti, esperti del web e di diritto mettevano in guardia dai pericoli di questo Ddl. Nonostante l’enfasi sul rispetto delle leggi a tutela della vita privata e dei dati personali, infatti, la nuova legge dà alle autorità la possibilità di intercettare comunicazioni telefoniche e digitali, di installare apparecchi di registrazione nelle abitazioni private, di controllare e-mail e password di chiunque sia legato a un’inchiesta sul terrorismo senza la preventiva autorizzazione del giudice. A decidere in vece della Magistratura sarà la neonata “Commissione Nazionale per il Controllo delle Tecniche di Intelligence”, composta da magistrati e senatori.
«Je suis sur écoute», protestano i cittadini. E hanno ragione. I servizi di intelligence – non solo quelli facenti capo alla Difesa e alla Giustizia, ma anche quelli legati al ministero dell’Economia, del Bilancio e delle Dogane – avranno a disposizione anche uno speciale algoritmo capace di individuare comportamenti sospetti sulla Rete grazie alle boites noires (letteralmente “scatole nere”) installate dai provider di internet. Un punto particolarmente controverso visto che – spiegano i contestatori della legge – non solo l’algoritmo non sarebbe in grado di filtrare i potenziali “falsi positivi”, ma nemmeno l’anonimato sarebbe garantito, poiché resterebbe identificabile l’indirizzo IP del computer. «Decine di migliaia di persone saranno sospettate a torto», mette in guardia l’INRIA, l’Istituto Nazionale per la Ricerca in Informatica e Controllo, e in particolare i suoi specialisti in protezione della vita privata, Daniel Le Métayer et Claude Castelluccia. Un pericolo denunciato anche da Amnesty International: «Le misure previste dalla legge sono palesemente sproporzionate. Gran parte della popolazione francese potrebbe prima o poi ritrovarsi sotto sorveglianza per motivi ignoti e senza autorizzazione giudiziaria. […] La legge è una clamorosa violazione dei diritti umani, riconosciuti a livello internazionale, alla privacy e alla libertà d’espressione».