Repubblicani all’assalto: Bush non convince, Trump delira

A esattamente un anno dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America la fase dello scontro interno nei due schieramenti, Repubblicano e Democratico, è cominciata come peggio non poteva.

Se nel campo democratico la vittoria di Hilary Clinton sembra cosa scontata, tanto che l’opposizione più agguerrita, quella di Bernie Sanders, si attesta solo sul piano nominale; in campo repubblicano le cose sono ben diverse. I candidati sono molti, ben quindici, e divisi, sempre che divisioni del genere possano avere senso, in realisti e populisti. Realisti, ovvero coloro che, pur senza mettere dito del piede fuori dal recinto dei tabù repubblicani, moderano la dose di scempiaggini con cui condire la loro campagna elettorale; populisti, cioè quelli che, con re Donald Trump in testa, oltre a  ribadire i principi imprescindibili del codice repubblicano, sparano a zero su tutti i temi caldi con proposte così assurde da dubitare che siano pensate con la loro testa, o che quella testa sia in grado di pensare.

 

Ne hanno dato prova qualche giorno fa al quarto dibattito pubblico (ce ne sono in programma nove) sul palco del Milwaukee Theater, dove la discussione è sembrata accettabile, seppur non condivisibile, solo finché è rimasta sui temi cari a ogni campagna elettorale repubblicana: taglio delle tasse, meno welfare, stato minimo, difesa, sogno americano, viva Israele, meno assistenze sociali (a dir poco mefitiche le critiche alla riforma della sanità voluta da Obama). Dopodiché apriti cielo. Il candidato di punta dei realisti, Jeb Bush, ovvero il terzo Bush, manco fossimo nell’antico Egitto a contare i Ramses, non ha saputo tenere testa alle punte di diamante dei Repubblicani Populisti, Ben Carson e Donald Trump, ancora una volta tristemente e terribilmente osannati con applausi scroscianti. Viene da chiedersi chi sia più stupido: se chi ribadisce che “costruiremo uno splendido muro proprio come in Israele oltre al quale deporteremo tutti i clandestini” oppure chi lo applaude inneggiando al suo nome.

 

Pur però hanno provato a controbattere John Kasich, governatore dell’Ohio, Jeb Bush e Marco Rubio (l’unico che forse è uscito davvero rafforzato da questo dibattito e che ha aggredito con più preparazione le cialtronerie) che questo progetto è una follia, nonostante la platea fosse già stata conquistata dagli slogan populisti. Se non altro, a loro favore, gioca il fatto che questo dibattito abbia provato a riportare al centro della discussione i temi della politica togliendo il terreno sotto ai piedi a chi sopravvive solo con le frasi a effetto.

Tentativo riuscito, come dicevamo, solo in parte e che non risolve un problema che il partito Repubblicano (inteso come establishment) è ben consapevole di avere, non solo rispetto agli indici di gradimento di Bush junior secondo, sempre in calo e affiancato – superato? –  in testa appunto da Marco Rubio, ma soprattutto in riferimento al tipo di narrazione proposta, laddove i pur ipocriti mea culpa su errori di valutazione in politica interna e internazionale e la ricetta per uscire dalla crisi (economica, civile, morale) spostano ben poco l’asticella, mentre le sparate di quello che all’inizio sembrava essere soltanto il buffone di turno (Trump) riscuotono un successo che ora è davvero preoccupante.

 

Perché non osiamo immaginare, in un momento geopolitico così delicato dove già le responsabilità degli U.S.A. sono inquantificabili, quali catastrofi potrebbe generare un folle come questi al comando della nazione più bellicosa e dannosa degli ultimi decenni. Anche se forse i buffoni sono meno pericolosi dei calcolatori.

@aurelio_lentini

Marco-Rubio

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