Il nuovo doping di Stato in Russia
Il 9 novembre scorso è scoppiata la bomba: “Tutta l’atletica russa fa uso di doping. Sospendetela da ogni competizione”. Con questa richiesta la commissione indipendente istituita dalla WADA (l’agenzia mondiale antidoping) ha esortato la IAAF (la federazione mondiale di atetica) a bandire gli atleti russi da Giochi, Mondiali ed Europei. Per tutto il mondo sportivo è stato ovviamente un fulmine a ciel sereno, soprattutto per l’unicità della sanzione prevista: mai la WADA aveva fatto richiesta di sospensione per doping per un intero movimento sportivo nazionale. Nel dettagliato rapporto, 323 pagine redatte dopo un’indagine durata 11 mesi, si individuano numerose falle nel sistema, che hanno impedito negli anni un controllo efficace del programma antidoping russo. Tutto nasce dalle denunce di una grande inchiesta giornalistica del canale televisivo tedesco Ard, dove grazie a testimonianze dirette e indirette e la pubblicazione di documenti secretati, il giornalista Hajo Seppelt ha portato a galla intrighi e coperture degni del KGB.
La reazione della IAAF non si è fatta attendere e il 13 novembre ha sospeso con effetto immediato tutta l’atletica russa: un plebiscito, 22 voti a favore e uno solo contrario. Il Presidente Sir Sebastian Coe, commentando la decisione ha dichiarato: “Oggi abbiamo potuto constatare il fallimento della Federatletica russa e quindi preso l’unica decisione che fosse giusto prendere: sospenderli. Ma abbiamo anche discusso e convenuto che l’intero mondo dell’atletica ha fallito, non solo la Russia”. Questo per sottolineare come le colpe debbano essere equamente divise tra la nazionale di Putin e tutto il sistema di controllo antidoping. Perchè la malafede di un singolo atleta può essere un caso, ma un intero movimento guidato e indirizzato verso l’imbroglio non può non intaccare la credibilità di un intero sport.
Pericolosi precedenti. Tutta questa vicenda ha riportato alla mente il concetto di “doping di stato” utilizzato negli anni ’70 e ’80 dall’Unione Sovietica e soprattutto dalla Germania Est. Il fenomeno DDR, ormai solamente materia per gli storici dello sport, fu un grosso buco nero nella storia dello sport mondiale. Il piccolo paese ad est del Muro di Berlino riuscì infatti a conquistare 389 medaglie (di cui 160 d’oro) in cinque edizioni delle Olimpiadi (boicottò Los Angeles ’84), imponendosi in termini assoluti come la terza potenza sportiva di quel periodo alle spalle di Stati Uniti e Unione Sovietica. Fu chiaramente un successo clamoroso, cancellato per sempre dalle scoperte post caduta del Muro, sull’uso sconsiderato del doping. Il metodo era tanto folle quanto semplice: selezionare i ragazzi e le ragazze più portati, somministrare in maniera costante e scientifica sostanze dopanti che ne facessero delle macchine da medaglie, degli atleti perfetti, invincibili e portare la Repubblica Democratica Tedesca a dominare il mondo, almeno in ambito sportivo.
I primi però ad utilizzare questa metodologia furono proprio i sovietici all’inizio del anni ’70, quando l’Istituto di Cultura Fisica di Mosca redisse un rapporto segreto dall’inequivocabile titolo “Steroidi anabolizzanti e prestazioni sportive”. Un rapporto divenuto pubblico solo pochi anni fa, grazie al Prof. Michael Kalinski, allora presidente del dipartimento di biochimica dello sport dell’Istituto di Cultura Fisica di Kiev, che solo dopo l’ottenimento della cittadinanza statunitense, trovò il coraggio di farlo conoscere al mondo: “Non potevo parlare nel mio paese, ma qui negli Stati Uniti posso. Esponendo allora il rapporto in Occidente sarei stato sicuramente esiliato in un Gulag sovietico per aver rivelato segreti di Stato. Le direttive arrivavano dall’alto e con il controllo del KGB il silenzio era l’unica opzione.” Il documento di 39 pagine, era un resoconto di uno studio condotto su “atleti di resistenza”, come sollevatori di pesi, pugili e ginnasti, ai quali, tra il 1971 e il 1972, vennero somministrati volutamente anabolizzanti e steroidi perchè miglioravano nettamente le prestazioni sportive. Questo studio fu fortemente sostenuto dal governo sovietico, obbligando tutti gli istituti dello sport della madre patria a far circolare la relazione e incoraggiando dirigenti sportivi, allenatori e atleti nell’uso metodico e continuativo di sostanze dopanti. “Gli steroidi aumentano la sensazione di forza”, si leggeva infatti in quelle pagine, “incrementano l’appetito, inducono uno stato positivo e provocano il desiderio di allenarsi più duramente”. Una metodologia ed un linguaggio molto simile a quello usato dalla WADA pochi giorni fa, che nelle pagine pubblicate parla di “sistematica cultura di doping nello sport russo”.
Ma in pratica cosa è successo? Tutto parte dal laboratorio di Mosca, l’unico accreditato dalla WADA per i controlli sul territorio, il quale, secondo l’inchiesta, sarebbe stato per anni solamente lo specchietto per le allodole dell’antidoping russo. In realtà ne esiste un secondo, sempre in città, noto come “Laboratorio della commissione dello sport moscovita per l’identificazione di sostanze proibite nelle provette degli atleti”, fornito delle stesse avanzate tecnologie necessarie per effettuare i test. La gestione però desta più di qualche dubbio: infatti fà capo solamente alle autorità comunali di Mosca e con il Laboratorio WADA russo non avrebbe nessun tipo di rapporti. In realtà, e qui sta il trucco, potendo operare con regole diverse, non direttamente rispondenti all’organo mondiale antidoping, sarebbe stato utilizzato per identificare in “prima battuta” gli atleti positivi ai controlli. Scoperto ciò, non sarebbe partita l’automatica denuncia che ogni laboratorio mondiale ha l’obbligo di segnalare, ma semplicemente gli esami degli atleti positivi sarebbero stati coperti, facendo giungere all’altro laboratorio solamente provette “pulite”. Per riuscire in un simile grande gioco, non si può non sospettare che tutto il meccanismo antidoping dell’ex Unione Sovietica intrattenga stretti rapporti con le più alte cariche governative nazionali, che non solo tollerano, ma addirittura coordinano le sue pratiche. In aggiunta a questo scandalo sono uscite recentemente testimonianze di imbrogli anche durante le Olimpiadi di Sochi del 2014, i cui risultati sono ora fortemente in discussione. Da quanto sostenuto, sembrerebbe che membri dei Servizi Segreti russi si siano infiltrati nelle strutture antidoping – cioè nel Laboratorio accreditato di Mosca operante in loco – per manipolare i risultati dei test degli atleti loro connazionali, imponendo un’atmosfera di intimidazione.
Tutto fin troppo simile al progetto ventennale della Stasi e a quanto raccontato dal Prof. Michael Kalinski.