La Francia è in guerra, alleanza con la Russia: posizioni e conseguenze

Ormai è ufficiale, la Francia è in guerra. La Francia reagisce al terrorismo e chiude le frontiere. La Francia ha chiesto un maggior coinvolgimento militare degli altri Paesi Ue nella lotta all’Isis e l’Europa unita risponde con un secco “si”. L’alto rappresentante per gli Affari Esteri Ue, Federica Mogherini, annuncia il sostegno “unanime” del Consiglio di Difesa all’attivazione della clausola di difesa collettiva prevista dall’art. 42.7 del Trattato di Lisbona, che implica l’obbligo dei Paesi membri di fornire aiuto e assistenza a uno Stato europeo vittima di un’aggressione armata sul suo territorio, chiesta da François Hollande, parlando davanti al Parlamento: “Siamo in guerra, chiediamo aiuto all’Ue”. Però la stessa Mogherini ha voluto precisare che la clausola “non richiede alcuna decisione formale da parte dell’Unione Europea” ed “evoca solamente assistenza bilaterale e non una missione di difesa comune” sotto l’egida della Csdp (Politica Comune di Sicurezza e Difesa). Parigi potrà ora chiedere a ciascuno Stato membro di contribuire, in vari modi, non necessariamente con azioni armate, alle operazioni militari nelle quali è impegnata la Francia. E gli Stati membri si sono impegnati a rispondere, anche se non sono obbligati a farlo esattamente nei termini in cui viene posta la richiesta.

 

Il presidente francese ha già comunicato i prossimi impegni, incontrerà Obama e subito dopo Putin a Mosca. Con lui ha già parlato al telefono per stabilire un coordinamento degli sforzi contro lo Stato islamico. Intanto il presidente russo ha già dato l’ordine di cooperare da subito con le forze navali francesi “come alleato”. Hollande ha promesso di distruggere l’organizzazione jihadista e Vladimir Putin ha fatto lo stesso. Infatti sono già iniziati i raid su Raqqa, capitale dello Stato Islamico. Dal cielo è partita l’offensiva francese con diversi raid, dal mare quella russa. Mosca ha avvertito preventivamente anche Washington, che ha confermato “un numero significativo” di raid russi contro l’Isia a Raqqa. La Duma russa ha poi chiesto ai Paesi europei, del Nord America e del Medio Oriente di formare una coalizione anti-terrorismo come quella anti Hitler. Intanto i bombardamenti aerei condotti da Francia e Russia negli ultimi giorni nel nord della Siria hanno causato la morte di oltre 30 jihadisti dell’Isis, sostiene l’Osservatorio siriano per i diritti umani.

 

Holland ha discusso anche con il suo omologo iraniano Hassan Rohani che, dopo avere annullato la sua visita in Francia a seguito degli attentati, ha dichiarato che l’Iran “è pronto ad assumere qualunque iniziativa, anche a una cooperazione di intelligence con la Francia, contro i terroristi. In ogni parte del mondo”.
Anche il primo ministro David Cameron è intervenuto ai comuni per tentare di convincere nuovamente i deputati della necessità di bombardare l’Is in Siria. “Credo fermamente che dobbiamo agire”, ha detto il leader britannico ai parlamentari. A fine estate 2013, Cameron non era riuscito ad ottenere il favore del parlamento per colpire in Siria.

 

Ma nella realtà chi si impegna ora nella coalizione contro il terrorismo dell’Isis? Soprattutto usare per l’ennesima volta le armi in quei territori è una soluzione oppure l’ennesimo errore condotto dall’Occidente? Per adesso infatti nessun leader europeo ha chiaramente mostrato di sostenere la linea dura degli americani nei confronti del governo autoritario siriano, e ciò potrebbe portare ad un ulteriore allontanamento diplomatico dell’Europa dall’America a favore di Mosca. Il destino della Siria è infatti di grande interesse sia per la Russia che per i Paesi Occidentali, non solo perché a entrambi preme la sconfitta dello Stato Islamico, ma anche perché essa è il perno sul quale si regge la stabilità della regione. La questione mediorientale rischia di diventare per l’ennesima volta un terreno di scontro tra le influenze degli Stati Uniti e quelle russe, con Obama che accusa i russi di voler turbare l’ordine mondiale sganciando bombe sulla Siria, quando la US Air Force sta facendo lo stesso da quasi un anno. Gli Usa pensano di poter instaurare dei governi democratici nell’area, compreso in Siria, eppure la storia negli ultimi decenni ci ha insegnato che la democrazia non si esporta. Iraq con Saddam Hussei, Afghanistan con i talebani, Libia con Gheddafi… Ogni qualvolta l’Occidente è intervenuto ha distrutto una complessa alchimia di culture, fedi ed etnie diverse tenute insieme da una figura forte; un dittatore senza dubbio, ma ad ogni modo qualcuno che riusciva a preservare quantomeno la stabilità interna del proprio paese.

 

Il presidente americano non ha intenzione di inviare uomini di terra che molti invocano. Inviare soldati sul terreno sarebbe un errore, la strategia dev’essere sostenibile nel tempo anche se va intensificata. Quindi, raid aerei, addestramento dei ribelli appoggiati da truppe speciali, coordinamento delle intelligence, contrasto finanziario per essiccare ogni risorsa del Califfato, questa è la strategia usata da Washington.Invece, dopo che la Russia ha subito una valanga di critiche, Vladimir Putin ha visto riconosciuta da Obama l’importanza dell’intervento militare. Putin non vuole e non può permettersi operazioni di terra, troppo rischiose sul piano interno. Chiede però il pieno coordinamento dello sforzo militare con Usa, Iran, Arabia Saudita e gli altri.

Mentre Teheran la sua guerra in Siria già la combatte, impegnata sul terreno, con gravi perdite, accanto alle truppe governative nella lotta all’Isis sunnita, Assad è anche il più fedele alleato degli ayatollah nel mondo arabo e l’Iran non lo mollerà facilmente.

Il nemico principale dei sauditi, invece, non è l’Isis, ma Bashar Assad e i suoi alleati, primo l’Iran. Il regime wahabita è stato indirettamente criticato da Obama per aver ridotto i raid aerei in Siria, preferendo concentrare gli sforzi nello Yemen.

Ankara si è unita ai raid aerei contro l’Isis nel mese di agosto, senza problemi a mandare i suoi jet a bombardare anche i peshmerga separatisti nel Kurdistan. Erdogan ha lottato per togliersi di dosso l’accusa di aver favorito, non tanto l’Isis, ma i miliziani in transito dal territorio turco per unirsi al Califfato. Nemica di Assad, la Turchia sogna una fascia di sicurezza tra i suoi confini e quelli della Siria e Iraq.

Il Qatar si muove su un filo che potrebbe spezzarsi, infatti, costretto a smentire senza convincere di finanziare al Qaeda, intrattenere rapporti con fazioni siriane simpatizzanti dell’Isis, mantenere un filo sotterraneo con al-Nusra. Ma l’emirato ospita anche il comando Usa che coordina i raid in Siria e Iraq.

Fa la sua parte la Giordania, che compilerà entro il 10 dicembre la lista delle fazioni siriane dedite al terrorismo.
Mentre il Bahrain resta un membro non troppo attivo della coalizione contro il terrorismo islamico. L’Oman resta a guardare, mantiene rapporti diplomatici con Assad. Anche se questi ultimi sono Paesi che non vanno in guerra, avranno comunque tutti dei ruoli decisivi.

Mentre l’Italia sembra non aver nessuna voce in capitolo riguardo alla situazione drammatica che il mondo sta attraversando e sull’impiego dei Tornado anche in missioni di combattimento è caduto il silenzio.