Salgado: la luce primordiale della creazione

In questi giorni il museo dell’Ara Pacis, lungo le sue ariose sale espositive, ospita la mostra di uno dei più grandi fotografi viventi; cinque capitoli compongono questo straordinario viaggio durato otto lunghissimi anni dove Salgado, attraverso luoghi incontaminati, ancora “allo stato della Genesi”, ha cercato di “tornare alle origini del nostro pianeta” mostrandoci una tra le innumerevoli vie ”alla riscoperta dell’uomo nella natura”. 

Il primo verso di quello che il suo stesso autore definisce un’ “ode visiva alla bellezza e alla fragilità della terra”, s’incarna nel volto supplichevole e carico di umanità di un elefante marino che, spalancata la bocca, sembra esortare chi l’osserva a prendersi cura di questo mondo ancora pervaso dalla sua primigenia purezza e “dove possibile, a “ far sì che il suo sviluppo non sia necessariamente connesso alla sua distruzione”. La costante che domina tra le incantevoli variabili di questi territori ancora selvaggi, è una luce antica, magica, spesso colta nel suo prorompere da impasti di bianco e di grigio di nuvole inquiete; è una luce che muove ad un’autentica contemplazione, a guardare il mondo allo stesso modo in cui Dio lo guarda, generando quell’intima comunione tra l’occhio del fotografo e la magnificenza di ciò che gli sta intorno. {ads1} E’ sempre la stessa luce quella che in una delle immagini esposte vediamo penetrare senza fatica tra migliaia di rami e illuminare il petto e i muscoli di una arciere nell’atto di scoccare la sua freccia; la si può vedere ancora riposare sulla superficie lievemente increspata del fiume Xingu, in Amazzonia , mentre due sagome scure su una minuscola imbarcazione procedono verso un mondo misterioso. Salgado continua ad inseguire quella luce, distesa sopra le striature delle gigantesche dune del Namib, immagine di un pianeta allo stato puro, quando fa risplendere l’essenzialità dell’agile volo degli aironi; quando si spalma sull’imponenza dei vulcani russi assorti nel loro mistico silenzio. La preziosa e inesauribile testimonianza che il fotografo brasiliano ci lascia culmina nella nudità dei corpi degli ultimi veri indios che conducono un’esistenza come centinaia di anni fa, in una perfetta armonia con la natura. 

Forse usciti dalla mostra sentiremo che una “certa quantità” di immagini meravigliose si è delicatamente posata nel fondo della nostra anima e rimarrà con noi per ricordarci che “esiste una grande porzione del mondo ancora integra e “ che proteggere questa parte é fondamentale per tutti noi”.

 

 

 

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