#occupygezi: la guerra civile ai tempi di Twitter
Il caso Turchia, al netto delle considerazioni personali, rappresenta la dimostrazione di quanto George Orwell e tutti i suoi “colleghi” distopici ci avessero preso in pieno con le loro fantascientifiche – e mica tanto – scritture.
Da una parte, c’è il popolo: la massa che si ribella alla cementificazione di Gezi Park, ultimo polmone verde rimasto nella megalopoli del Bosforo, ergendosi in difesa della natura e della vita prodotta direttamente dalla terra. Dall’altra il Premier Recep Tayyip Erdogan con il suo partito, l’AKP, regolarmente e democraticamente eletto dal popolo, che sfodera gli artigli attraverso la forza delle repressioni armate e del silenzio imposto ai media locali.
È molto difficile, per chi vive in Turchia (e non solo), poter accendere la televisione o aprire un giornale locale e apprendere la verità totale su quanto sta avvenendo. Facebook e Twitter, quei social network che il Presidente vede come «minaccia per la società», sono i veri mezzi di riferimento e canali di comunicazione della “primavera turca”. Ed è qui che si reperiscono le news, quelle vere, quelle fresche. A scorrere bene i messaggi, frugando l’hashtag #occupygezi, si potrà assistere a una rassegna che pare un vero e proprio bollettino di guerra: immagini di manifestanti inermi colpiti dai corpi di polizia, lacrimogeni gettati dagli elicotteri, video di repressioni di inaudita cattiveria.
Il tutto è cominciato da Istanbul ma, differentemente da quanto spesso avviene qui in Italia, il popolo turco ha dimostrato di condividere solidalmente gli altrui problemi, scendendo nelle piazze di tutte le più importanti città: ad esempio Ankara, che è stata oggetto di forti scontri, è monitorabile 24 h ore su 24 attraverso webcam poste dai volontari nelle piazze centrali. Da Smirne è invece Fabio, un ragazzo romano in erasmus, a raccontare un ambiente da «guerra civile», parlandoci di «manifestanti che hanno perso la vista per via di gas tossici e – soprattutto – di decine di morti». Questo è uno dei dati più infuocati e sul quale sono aperti forti dibattiti: alcune agenzie di stampa, straniere, battono in queste ore la notizia di un attivista di un gruppo di sinistra morto investito da un taxi. Il primo giorno di scontri, un sito turco parlava già di due, persone decedute. Alcuni connazionali presenti in Turchia confermano invece questa triste “decina” di cui ci parla Fabio, ben diversa dai dati del Ministero della Sanità che ieri riferiva, nel merito, di “soli” circa 70 feriti.
Ma la protesta non si ferma e anzi prosegue, più forte, dove è nata: ad Istanbul. La gente non smette di riversarsi in massa per le strade, inondandole. È una ragazza del posto a spiegare come già durante il primo giorno ci sarebbero stati alcuni decessi, normali «studenti universitari» e che lei, come altri, prima di manifestare si scrive sulle braccia, con un pennarello, il proprio gruppo sanguigno: «just in case», dice.
Sta di fatto che la rivolta del popolo turco non accenna a fermarsi e trova alcuni preziosissimi alleati. È Anonymous a farsi portavoce mediatico della protesta, condividendo quante più notizie, cercando di spargere quanto viene inviato e bloccando i siti governativi e del partito di Erdogan, tutti mandati off line in lotta al «fascismo del dittatore». E la battaglia sta aprendo nuovi scenari, dimostrando di non essere una semplice protesta ambientalista, bensì una forte espressione di voglia di democrazia. E ancor più, una sfida concreta ai bavagli, alle bocche cucite: la libertà della Rete sta infatti dimostrandosi fondamentale, contrapponendosi al complice e colpevole silenzio dei media turchi. Sta proprio qui, nella libera parola, la vera paura di Erdogan e del suo «regime», termine sul quale concordano tutti coloro con cui capita di parlare in queste ore .
Vero, è da sottolineare: il Grande Fratello di Orwell controllava il presente scrivendosi il futuro; forse, però, non aveva fatto i conti con Twitter.
di Mauro Agatone