ZeroZeroZero: Il ritorno di Roberto Saviano

Dal 2006, anno del successo planetario di Gomorra, Roberto Saviano ha compiuto un lungo percorso artistico, civile e umano. Ha incontrato i grandi della cultura italiana e mondiale, ha collaborato con alcuni di essi, partecipato al dibattito civile del paese, guadagnato stima e credibilità internazionali.

Dal 2006 Saviano ha scritto diversi articoli, ancora sulla criminalità  e  su coloro che vi si sono opposti a rischio della vita, ma con le parole ha anche dipinto appassionati ritratti di virtuosi del nostro tempo come Petruccioli, Vollmann o Messi, contribuendo al percorso di costruzione di una propria estetica, indipendente e trasversale seppur legata, agli aspetti civili, sociali e  letterari delle sue opere. Questi articoli furono  raccolti nel 2009 in un libro in cui Saviano decideva di affiancare  la bellezza che sa trovare nel mondo, all’inferno che lo perseguita e dal disvelamento del quale è scaturito il suo enorme successo. Ha teorizzato una letteratura che deve, per sua necessità intrinseca, incidere sulla realtà circostante. In questi anni ha anche fatto molta televisione senza esserne fagocitato, senza diventare parte integrante dello show business, portando nel palinsesto i propri temi e il proprio impegno, senza scomparire nell’effimero, trattando la cattiva maestra da quel mezzo è. Ciò che dal 2006 a oggi Roberto Saviano ancora non aveva fatto era confrontarsi di nuovo con un’opera organica, stilisticamente coerente, in grado di attraversare lo specchio che il primo libro aveva infranto, proseguendo la potente ibridazione letteraria tra romanzo e reportage.  ZeroZeroZero (Feltrinelli, 2013) non è e non poteva essere Gomorra: un libro unico, pieno di  amore e rancore per la propria terra, scritto dall’interno, per strada, in sella ad una vespa. Quella vita per Saviano non c’è più e per mille cose che non può più fare, ce ne sono altrettante che prima gli erano precluse  e gli permettono uno sguardo più ampio e inevitabilmente più distante, in grado di comporre un puzzle planetario fatto di luoghi diversi dalla periferia campana e soltanto apparentemente remoti.

Il canone dominante è quello del reportage, in cui ci viene raccontato un altro aspetto della Globalizzazione: motore unico della storia recente del mondo, omologante, pervasivo, transnazionale. Tra i suoi frutti più amari abbiamo imparato a conoscere il capitalismo che assume tratti criminali, non soltanto negli effetti distruttivi sulle popolazioni denunciati dall’opposizione politica anti-globalista, ma criminali in senso stretto, nei metodi e nella violazione dei codici, come i casi Madoff, Parmalat, Enron. Saviano porta prepotentemente alla nostra attenzione l’altra faccia della stessa medaglia: quella del crimine che si fa attore principale del processo di espansione capitalistica gestendo alleanze, rotte commerciali, enormi movimenti di capitali finanziari, rapporti con le istituzioni e investimenti nell’economia legale, proprio come una multinazionale qualsiasi. Stavolta ci svela il lato oscuro dei flussi del capitale globale ma parte integrante di essi, governato da dinamiche identiche e capovolte, tragicamente anticicliche rispetto alla crisi della finanza legale. Il livello in cui scorre il sangue è quello delle strade della Colombia e del Messico dove si compiono i massacri stragisti del narcotraffico, le stive dei sommergibili (sic) dove viene trasportata la cocaina, gli stomaci dei corrieri che ingoiano ovuli per passare una dogana. Il livello superiore che poggia su di esso, ha una parvenza rispettabile, è avvolto nel lusso, integrato nel sistema bancario attraverso milioni di transazioni finanziarie giornaliere. Carburante di tutto questo, dal vicino di casa al manager che lo alimentano nella veste di consumatori, fino alle tonnellate di polvere bianca che attraversano gli oceani, è la cocaina e da questa discende lo strapotere di chi la controlla.

In ZeroZeroZero la dimensione intimistica e personale emerge soprattutto nei brani in cui Saviano si guarda allo specchio, riconoscendo la propria ossessione e l’espropriazione della propria vita di prima, lontana dalle minacce, dalle scorte e dai riflettori, una vita  cui sembra guardare con insopprimibile nostalgia. “Ossessione” è la parola che ritorna di più nel libro dopo “cocaina”, perché il rapporto tra l’autore e l’oggetto del suo studio è morboso, seppure lucido, tanto da renderlo innanzitutto prigioniero del proprio nemico, dal cui agire lo sguardo di Saviano non sa distogliersi, mai. Seppur su un piano artistico completamente diverso una simile feconda ossessione ricorda quella che permise ad un autore come Pasolini di regalarci le proprie pagine più viscerali,  crude, dolorose. Saviano verso la fine del libro torna sulla macchina del fango e si abbandona una lunga e appassionata confessione, dalla quale emerge un intenso autoritratto artistico e umano. Se forse non può fare a meno di soffrirne, Saviano non dovrebbe comunque stupirsi del fango che gli viene gettato addosso (non le critiche, quelle son legittime): a volte ti perdonano il successo, a volte perfino il coraggio, raramente ti vengono perdonati entrambi. Questa almeno in passato è stata la sorte di molti intellettuali veri, coloro che hanno osato guardare negli occhi l’abisso di questa società, affondandoci le mani dentro, perdendo un po’ di se stessi pur di potercelo raccontare e permetterci di comprenderlo per, sempre che ne saremo in grado, contribuire un giorno a sconfiggerlo. 

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