Marò, quello che abbiamo dimenticato

Fra accuse reciproche, offese e attacchi, è iniziato ad Amburgo l’arbitrato internazionale sulla vicenda di Salvatore Girone e Massimo Latorre, i due fucilieri di Marina accusati di aver ucciso due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala il 15 febbraio 2012. L’Italia si era appellata formalmente al Tribunale Internazionale del Diritto del Mare il 26 giugno per risolvere la controversia e oggi è partita all’attacco. Chiedendo il rimpatrio di Girone e la permanenza di Latorre per tutta la durata dell’arbitrato e la sospensione delle azioni penali indiane, l’Italia ha accusato l’India – per bocca dell’Ambasciatore Francesco Azzarello – di «disprezzare il giusto processo» e di tenere Girone «in ostaggio». L’India, dal canto suo, ha respinto le accuse al mittente definendole «offensive» e ha rilanciato: l’Italia è «in malafede» perché in passato non ha rispettato gli accordi presi.

La decisione del tribunale sulle richieste dell’Italia, forse, arriverà entro due o tre settimane, ma l’iter arbitrale potrebbe protrarsi per anni. Il 26 agosto sarà operativo il collegio arbitrale dell’Aja, che deciderà nel merito della questione, i cui tempi potrebbero essere molto lunghi. Nel frattempo, mentre da una parte all’altra piovono attacchi e i sostenitori dei “leoni” del battaglione San Marco incrociano le dita e coprono di insulti l’India, i suoi abitanti e i governi italiani imbelli, dovremmo fare un passo indietro, recuperando pezzetti del puzzle che sembriamo esserci dimenticati. Dietro gli appelli, la retorica, la (molto più appassionante) satira e una copertura mediatica troppo spesso schierata aprioristicamente a favore dei «nostri ragazzi», infatti, ci siamo scordati delle cose, che vale la pena ricordare non per un fantomatico “sentimento antiitaliano” ma per puro e semplice amor di verità. Lasciamo da parte l’onore, il tricolore e la retorica nazionalista che ammanta questa vicenda ormai da tre anni. Ripartiamo dai fatti, quei fatti che nella foga di difendere l’Italia e i suoi militari abbiamo dimenticato. L’elenco potrebbe essere lungo, per brevità limitiamoci alla “top three” dei fatti rimossi o deliberatamente ignorati perché non funzionali al racconto epico dei “marò-eroi”.

pescatori1. I morti. Troppo presi a concentrarsi su i due martiri italiani, abbiamo cancellato le vere vittime dell’affaire Marò, Ajesh Pinky e Sebastian Valentine. I due pescatori uccisi sono spariti dalle cronache in un lampo e, da subito, non hanno più avuto alcun ruolo nella vicenda. Con loro, è scomparso anche il fatto nudo e crudo che sta dietro il patrio tentativo di «riscattare» i soldati: due persone innocenti sono morte, uccise dai proiettili partiti dall’Erica Lexie. Se Latorre e Girone siano colpevoli – per dolo o per colpa – lo deciderà il tribunale. La sentenza, però, in Italia sembra essere stata emessa da tempo. Per politici, commentatori e giornalisti, quello consumatosi il 15 febbraio 2012 è, semplicemente, un «incidente». Nulla di più. Nei confronti dei Marò il garantismo – un ipergarantismo – è sempre stato totale: non sono innocenti sino a prova contraria, sono innocenti e basta.

2. I marò non erano sull’Erica Lexie per «servire la Patria». Con buona pace di chi difende gli “eroi” perché militari in servizio, Latorre e Girone il 15 febbraio 2012 non erano su quella nave in un’operazione antipirateria per conto dello Stato, nonostante anche il documento presentato al Tribunale del Mare accusi l’India di violare «i suoi obblighi internazionali […] impedendo all’Italia di esercitare la propria giurisdizione sul caso che riguarda due militari in servizio per conto dello Stato su una nave battente bandiera italiana». Come ha spiegato Matteo Miavaldi, «I marò a bordo dell’Enrica Lexie tecnicamente non partecipavano a nessuna missione internazionale. Nel 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma, la Confederazione Italiana Armatori, hanno firmato un’intesa, seguita da una convenzione, che permetteva, agli armatori che ne facessero richiesta, di imbarcare dei Nuclei Militari di Protezione (Npm) formati da fucilieri di Marina, impiegati in servizio anti pirateria a difesa, quindi, di navi commerciali italiane, ma private (nel caso specifico della Lexie, di proprietà dell’armatore Fratelli D’Amico)». Si tratta della legge n° 130 del 2 agosto 2011, fortemente voluta dall’ex ministro La Russa, che ha esposto « i propri militari in attività private che non rientrano in operazioni internazionali, non vengono condotte su mezzi militari e ricadono in una zona grigia del diritto in cui l’India ha potuto, a rigor di legge, non applicare l’immunità funzionale garantita al personale militare all’estero poiché difendere la merce e gli interessi di privati non dovrebbe essere il lavoro dei soldati, ma quello dei contractor».

marò_290x4353. I Marò (per la precisione in questo momento Salvatore Girone), lo ricordiamo per l’ennesima volta, non stanno marcendo in una prigione indiana. La vulgata che li vuole prigionieri dietro le sbarre di un putrescente carcere altro non è che una pura e semplice menzogna. Girone risiede attualmente presso l’Ambasciata italiana di New Delhi, in passato i due marò hanno soggiornato in hotel di lusso o presso guest house. Che in alcuni casi avevano sì le sbarre alle finestre, ma non per impedire loro la fuga (peraltro erano in libertà vigilata e dunque liberi di muoversi), ma per impedire l’accesso alle scimmie, come ricorda ancora Matteo Miavaldi e come può confermare chiunque abbia visitato l’India. In carcere i due Marò non ci sono mai stati. Per loro, invece, sin dall’inizio è stato a disposizione cibo italiano: «La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale». Insomma, non esattamente la cloaca infernale descritta in Gragory David Roberts in Shantaram, riservata ai meno fortunati detenuti indiani e agli stranieri che non indossano un’uniforme.