Ucciso il reporter Rubén Espinosa Becerril

Un giorno ci piacerebbe svegliarci e scrivere tutto il contrario di quello che spesso e volentieri, quando parliamo di Messico, siamo chiamati a commentare. Ci piacerebbe scrivere che chi protesta e denuncia, chi alza la testa contro la corruzione e il malaffare che governano il Paese, non viene trucidato barbaramente e fatto sparire. Ci piacerebbe, ma non possiamo.

La storia di Rubén Espinosa Becerril è purtroppo una tragedia come tante: giornalista e fotoreporter, Espinosa aveva cominciato a lavorare per le istituzioni pubbliche durante la campagna elettorale del governatore Javier Duarte. In seguito, sdegnato dalla disonestà imperante in quel settore, diventò freelance (corrispondente tra gli altri periodici di Proceso e Cuartoscuro) e cominciò a seguire le proteste sociali e le lotte per la libertà di espressione. Una scelta che attualmente in Messico è profondamente coraggiosa e terribilmente letale: dal 2000 ben 88 giornalisti sono stati uccisi e, secondo dati ufficiali, sono morte o scomparse 25.700 (venticinquemilasettecento) persone tra attivisti politici, studenti, oppositori al governo e normali cittadini, in particolare durante l’amministrazione del Presidente neoliberista Enrique Peña Nieto, iniziata nel 2012.

Rubén Espinosa è il tredicesimo giornalista ucciso nello Stato di Veracruz, uno dei più pericolosi del Paese.
Insieme a lui sono state uccise quattro donne (tre attiviste e una domestica diciottenne). Tutte le vittime sono state legate, picchiate, torturate (le donne anche crudelmente violentate) e poi finite a colpi di pistola; e francamente mancano le parole per commentare tanta efferata disumanità.

Il fotoreporter messicano aveva da poco abbandonato lo Stato di Veracruz, dove dal giugno scorso, dopo aver documentato l’aggressione subita da otto studenti che furono aggrediti da un gruppo di incappucciati probabilmente legati alla Sicurezza Pubblica, era pedinato e minacciato giornalmente. Ma riparare nella capitale non è servito a niente: sabato scorso, poiché risultava irreperibile, il gruppo di difesa della libertà di espressione Articolo 19 aveva chiesto alle autorità messicane di attivare il protocollo per localizzarlo; e così è stato trovato insieme alle altre vittime nel Narvarte, un quartiere di classe media della capitale.

Nella sua carriera sono stati numerosi i casi di maltrattamenti e minacce: già nel novembre del 2012, mentre seguiva le proteste degli studenti contro il governatore Duarte per l’omicidio di un’altra corrispondente della rivista Proceso nel Veracruz, Regina Martinez, gli venne impedito di scattare le foto del pestaggio a uno studente da parte della polizia e fu minacciato di morte; il 14 settembre del 2013, durante il violento sgombero a un presidio di maestri e studenti universitari a Xalapa, venne brutalmente aggredito insieme ad altri giornalisti e gli fu sequestrato il materiale.

Un giorno ci piacerebbe smettere di aggiornare l’elenco dei morti per la libertà politica o di espressione, di contare i cadaveri delle fosse comuni (l’ultima dello Stato di Iguala contiene 109 uomini e 20 donne e ancora non si trovano i cadaveri dei 43 studenti della scuola normalistas uccisi da polizia e narcotrafficanti), e il numero di giovani ragazzi e ragazze massacrati; e parlare di un Paese più onesto e più libero, quello per il quale combattono tutti questi morti, dei quali tristemente conserveremo soltanto il ricordo e invidieremo il coraggio.

@aurelio_lentini

 

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