Meno di un anno fa, l’epidemia di Ebola era La Notizia del momento. Giornali, Tg e social erano quotidianamente occupati da aggiornamenti sulla diffusione, sui nuovi casi, sulle strategie per combatterla. Nella narrazione apocalittica di molti giornali e politici – che cavalcavano la paura del virus attribuendone la diffusione ai migranti arrivati per mare, in una totale ignoranza della seppur minima nozione dei meccanismi di incubazione e contagio – Ebola sembrava destinata a spazzare via l’intera umanità. Ora, l’epidemia é scomparsa dai nostri schermi, dai nostri radar, dalla nostra vita quoditiana. Di africano, ormai, nei nostri notiziari non é rimasto che il caldo, ma in Africa il virus continua a mietere vittime.

Anche se nell’ultima settimana i casi sono stati solo 7 – il numero più basso dall’inizio dell’epidemia – basta guardare l’ultimo report dell’OMS (datato 29 luglio) per rendersi conto che c’é ben poco di cui gioire. L’epidemia procede a rilento rispetto al momento di massima criticità, é vero, ma non é affatto sotto controllo e non sembra accennare a fermarsi.

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Nella ultime settimane, la media é stata di trenta nuovi casi ogni sette giorni in Guinea, Sierra Leone e Liberia. Un numero che in condizioni normali sarebbe drammatico ma che di fronte alle cifre dei mesi scorsi appare meno allarmante. Dal 12 al 19 luglio, i nuovi contagi nei Paesi colpiti dal virus sono stati ventisei, la maggior parte dei quali – ben 22 – concentrati in Guinea. In Liberia non ci sono state nuove persone infettate, ma é troppo presto per cantare vittoria. Dichiarato libero dal virus il 9 maggio 2015 dopo 42 giorni senza casi accertati, infatti, il Paese ha subito una nuova ondata di contagi. In sedici mesi, dal marzo del 2014, l’epidemia ha colpito quasi 28mila persone in tutto il mondo. Le vittime sono state undicimila, poco meno del 40% del totale. Fuori dall’Africa i casi registrati sono stati sette (lo 0,025%), e i decessi uno, negli Stati Uniti. Non si hanno notizie di contagiati al di fuori del continente africano ormai da mesi e il 20 luglio l’Italia è stata dichiarata libera dalla trasmissione del virus dopo il completamento di 42 giorni senza un caso, in quanto il primo e unico paziente malato di ebola nel Paese é risultato negativo ai test ed é stato dimesso dall’ospedale. È probabimente per questo che sull’epidemia é calato un silenzio assordante. Lontano dagli occhi, lontano dai social e dalle tv. Del resto, chi aveva tutto l’interesse ad alimentare la psicosi da ebola per fomentare gli istinti xenofobi e razzisti a fini elettorali, sta raccogliendo il frutto di quella campagna di disinformazione e ha già trovato nuove narrazioni tossiche con cui alimentare il sentimento antiimmigrati del Paese, tra i “clandestini che gettano il cibo” e quelli che “se la spassano a bordo piscina”.

ebolaAll’inizio stiamo stati indifferenti. Del resto, a morire erano degli aficani, tutto nella norma, no? Poi i malati sono arrivati un po’ più vicino a casa nostra e abbiamo iniziato ad avere paura. Poi, l’ebola é arrivata fino in Italia, proprio accanto al nostro orticello, ed é stata psicosi. Poi, come era arrivato, il panico se n’é andato, sparito assieme alle notizie dei contagi di cittadini europei o statunitensi. E gli sforzi comuni, gli aiuti, le belle parole con loro. Ma proprio questa «stanchezza», come l’ha definita Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, potrebbe rivelarsi esiziale per la lotta al virus. E la battaglia non può permettersi di arretrare: «dobbiamo portare a termine il lavoro», ha aggiunto la dott.ssa Liu, «nessuno era preparato alla portata di questa epidemia, la più vasta nella storia dell’umanità, né al fatto che sarebbe durata così a lungo. Ma non possiamo diminuire l’attenzione adesso e dobbiamo insistere fin quando l’intera regione non sarà libera da Ebola». Secondo l’OMS i primi risultati dei test sul vaccino sono “entusiasmanti” e “promettenti”, ma in attesa che esso possa rappresentare una svolta nella lotta al virus, inibendo nuovi contagi, non dobbiamo abbassare la guardia, lasciando le organizzazioni umanitarie a combattere da sole un’epidemia che ci siamo già dimenticati.