Un milione e mezzo di “schiavi”, milleduecento morti. No, non è il tragico bilancio di una guerra. É il numero di morti bianche tra gli immigrati del Qatar, che dal 2010 si sta preparando a ospitare i mondiali di calcio. Cifre destinate a crescere nei prossimi sette anni, prima che si accendano i riflettori sugli stadi costruiti al prezzo di migliaia di vite umane. Secondo le stime, infatti, prima del calcio d’inizio nel 2022 gli schiavi potrebbero essere due milioni e mezzo, i morti oltre quattromila.

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Fonte: The Washington Post

A riportare l’attenzione sulla situazione drammatica dei migranti nel Paese – mentre si discute di maximazzette e dimissioni in casa FIFA – è Amnesty International, con un report diffuso il 21 maggio. Le condizioni in cui versano i lavoratori edili del Qatar, però, è nota da tempo. L’International Trade Unions Confederation aveva diffuso le stime e l’inquietante profezia già nel settembre 2013: «More than 4000 workers risk losing their life over the next seven years as construction for World Cup facilities gets under way if no action is taken to give migrant workers’ rights. The annual death toll among those working on building sites could rise to 600 a year – almost a dozen a week – unless the Doha government makes urgent reforms». Nel marzo del 2014, la Confederazione sindacale internazionale aveva dedicato un report speciale proprio al Qatar «un Paese senza coscienza». Poco più di trenta pagine per riassumere l’orrore di quella che si configura come una nuova schiavitù, denunciata anche da alcuni articoli sul Guardian. Turni in cantiere di 12-16 ore anche con 50 gradi all’ombra (anche se, per legge, il lavoro dovrebbe essere interrotto dalle 11,30 alle 15 dei mesi più caldi), salari bassi o inesistenti (un euro l’ora nel Paese più ricco del mondo può essere considerato un salario?), mancanza di assicurazione, contratti fraudolenti, confisca del passaporto, baraccopoli fatiscenti in cui riposare tra un turno e l’altro, divieto di associazione, impossibilità di passare da un lavoro all’altro o spostarsi senza l’assenso del “padrone”. Ecco cosa c’è dietro la vertiginosa crescita infrastrutturale del Qatar.

I dati del 2012 e 2013 diffusi dal governo sui migranti provenienti da Nepal, India e Bangladesh, del resto, parlavano da soli: 964 morti in soli due anni. Molti erano stati uccisi da incidenti sul lavoro; molti, moltissimi, da improvvisi e inspiegabili attacchi cardiaci. La stessa Amnesty aveva già diffuso un primo rapporto nel 2013 («Qatar, the dark side of migration»), in cui si diceva senza mezzi termini: «Le imprese di costruzione e le stesse autorità del Qatar stanno venendo meno al loro dovere nei confronti dei lavoratori migranti. I datori di lavoro mostrano un impressionante disprezzo per i loro diritti umani basilari». Allora, la FIFA aveva scaricato ogni responsabilità sulle imprese costruttrici, mentre dal governo di Doha erano arrivate le rassicurazioni: entro il 2015 la situazione sarebbe cambiata, avevano detto. I diritti dei lavoratori migranti sarebbero stati rispettati e sfruttamento e abusi sarebbero stati un ricordo. I risultati, però, tardano ad arrivare. «Hanno promesso poco e realizzato ancora di meno», è il lapidario titolo del report diffuso dall’associazione umanitaria nelle scorse settimane. Delle – poche – promesse fatte, poco o nulla è diventato realtà. Lo sfruttamento dei migranti continua indisturbato, «Negli ultimi 12 mesi poco è cambiato dal punto di vista delle leggi, delle politiche e della prassi quotidiana per gli oltre 1.500.000 lavoratori migranti presenti in Qatar, che rimangono alla mercé dei loro sponsor e datori di lavoro. Sulle questioni cruciali del permesso di lasciare il Paese, delle limitazioni al passaggio da un impiego a un altro sulla base dell’istituto del “kafala”, della protezione delle lavoratrici domestiche e della libertà di fondare sindacati e di aderirvi, non vi è stato alcun progresso»slaves.

I migranti sono ancora soggetti a condizioni di lavoro disumane, continuano a essere sprovvisti di passaporto e rimangono totalmente nelle mani dei datori di lavoro: «Nell’ambito del sistema Kafala», infatti, «i datori di lavoro esercitano un controllo pressoché totale sul movimento dei lavoratori alle loro dipendenze, compresa la loro capacità di risiedere in Qatar, di cambiare lavoro o anche di lasciare il Paese. I lavoratori sotto tale controllo hanno spesso paura di denunciare abusi o far valere i loro diritti per paura di ritorsioni, il che contribuisce ulteriormente alla loro situazione di lavoratori forzati». Veri e propri schiavi, che costruiscono con il sangue il sogno dell’Occidente, che troppo spesso è indifferente o totalmente ignorante delle loro condizioni. Anche denunciare l’orrore, però, non è facile: «Giornalisti e ricercatori sui diritti umani che volevano approfondire la situazione dei lavoratori migranti in Qatar sono stati arrestati e interrogati. Solo nell’ultimo mese, giornalisti dell’emittente tedesca Wdr e della britannica Bbc sono stati arrestati», dice ancora Amnesty International.