Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone
Il racconto dei racconti di Matteo Garrone è un’opera inattesa, spiazzante, del tutto inadatta a fare cassetta al momento dell’uscita in sala malgrado l’alto budget e il cast eccezionale ma forse, soltanto forse, con qualche chance di diventare un cult in futuro, se non altro per l’unicità, l’impronta autoriale e la potenza straordinaria delle immagini di cui è capace. Le immagini soprattutto ti restano dentro, a decantare, come una droga a lento rilascio o come un trauma, che si percepisce soltanto in parte mentre accade e si rielabora soltanto in seguito, senza la certezza né la fiducia di venirne davvero a capo anche a giorni di distanza. Innegabile che il film sia esteticamente meraviglioso, fotografia, costumi, scenografie e location, la bellezza ti coglie di sorpresa fin dai primi fotogrammi e poi resta lì statica a farsi ammirare. Il cinema europeo sembra non sapersi avvicinare al fantastico senza essere statico, onirico, figurativo, marcando e sottolineando un abisso di distanza, un oceano appunto, col cinema statunitense dello stesso genere. Nell’epoca degli Hobbit, del Signore degli Anelli, di Harry Potter, di Narnia e del Trono di Spade, tutti successi d’abbonamento e botteghino, qualitativamente più o meno riusciti, incentrati sull’azione e sulla comprensibilità di quanto accade, rigorosamente adatti alle famiglie, l’opera di Garrone, ambientazione medieval-fantastica e stilemi magico-cavallereschi a parte, è lontana anni luce, è altra cosa, tentativo pervicace di fare tutt’altro con strumenti simili, attori di grido inclusi (Selma Hayek, Toby Jones, Vincent Cassel).
Anche le scelte tecniche, come quella di realizzare ancora draghi e mostri (comunque ben fatti) in materiale scenico, quando la computer-graphics d’oltreoceano permette di realizzare l’impossibile con l’immateriale, in questo caso non sembrano forse dettate dalla carenza di budget. Immaginiamo che Garrone abbia voluto che gli attori toccassero l’incubo, lo vivessero avvertendone la presenza nello spazio per quanto possibile. Il film è inoltre interamente girato in Italia, in luoghi capaci di un tale incanto da far impallidire qualsiasi ricostruzione digitale, studio hollywoodiano o paesaggio neozelandese. La trama si prende tutto il tempo, soprattutto all’inizio, prima di dipanarsi e si guarda bene dal farsi esplicita anche alla fine quando le vicende si risolvono, la sceneggiatura è essenziale, subordinata, quasi mortificata, da un’estetica grandiosa. Intorno all’azione principale non succede mai nulla, quindi ci si trova continuamente fuori dal tempo e fuori dalla realtà, nel sogno e più spesso nell’incubo. Le musiche sono adatte ma prive di ogni grandiosità, non è un film d’avventura, ripete Garrone ad ogni fotogramma: gli eventi straordinari accadono, ma non si esauriscono nella sorpresa e nello stupore, quanto nel turbamento e nell’inquietudine morbosa. E ancora, non è un film per famiglie, da seguire tra vasche giganti di pop-corn e bicchieroni di coca-cola, non è Pixtar, non è HBO, non è Dreamworks.
Il racconto dei racconti, già il titolo, francamente scialbo e inadatto, evoca trame nelle trame, ricorsività e annidamento, come il Decameron o le Mille e una Notte: niente di tutto questo, né favola moralistica, né gioco d’intrecci, né letteratura, piuttosto la crudeltà ossessiva psicopatologica di certe fiabe nella loro versione originale, prima che Disney le annacquasse rendendole graziose e innocue, le masticasse fino a farne digeribile pappetta per bambini. I tre racconti di cui il film è composto si sviluppano intorno ai personaggi femminili e ai loro desideri, motori di tutto. I maschi sono ostacoli inconsapevoli, creature chiuse nelle proprie ossessioni, vittime delle madri, delle mogli, dell’inganno, dell’amore, in definitiva di se stessi. Soltanto il femminile, nel bene o nel male, spezza il tracciato, vince l’immobilità, permette il rinnovamento e la trasformazione, vero elemento ricorrente comune a tutto il film. L’altro tema è l’ossessione per la carne, sensuale sì, ma più spesso cannibalesca, decadente, grottesca, raccapricciante; la parola giusta non è splatter ma sanguinolento. A voler essere superficiali e rozzi, si può dire con una battuta che si esce dal cinema più misogini e vegetariani.
Il Racconto dei Racconti non è però un’opera da liquidarsi con una battuta, è lo sforzo di un autore dal talento indiscutibile, un’operazione estetica di grandissimo valore, che per altri versi lascia inappagati il nostro gusto da colossale e serie-TV, non piacerà a molti, anzi a moltissimi, ma non si lascia dimenticare, non passa inosservata, non si cancella con le chiacchiere e la pizza dopo il film, resta lì per giorni a lasciar trapelare altro, forse perfino a metter radici. E, questo va detto, dove trionfa un cinema di genere accondiscendente e sostanzialmente rassicurante, fumettistico, spettacolare e spesso privo di quel genere di immaginazione capace di turbare e tormentare, dunque farsi anche torbida e pericolosa, non è poco. Non è affatto poco.
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