Fuoco nero su fuoco bianco di Roberto Mercadini
Il rotolo della Torah secondo lo Zohar (III, 132a), altrimenti noto come “il libro dello splendore”, contiene “fuoco nero su fuoco bianco”; certamente, lo stesso fuoco cui si allude è inconsumabile ed arde imperituro come quello del roveto dove Dio si manifestò a Mosè. Il colore nero è il colore dell’inchiostro, il sangue dei cinque libri del Tanakh, conosciuto anche con il nome greco di Pentateuco, ed esprime il significato di forza e di vita mentre il bianco è lo iato altrettanto sacro che separa le lettere. Questa poetica espressione ci dice che non tutto è palese e che vi sono diversi piani interpretativi; i caratteri tipografici da soli non sono bastevoli a rivelarli perché possono essere accoppiati in più maniere.
Costringere il testo in una semplice suddivisione in parole significherebbe ingessarlo rischiando così di rendere ancora più difficile il disvelamento della complessità del messaggio. Qualcuno ha scritto che le «lettere sono cavalli di fuoco e le parole con cui si uniscono divengono carri, ma convogliare il fuoco in un modo o in un altro, cioè definirlo, è una scelta non decisa a priori». Il Fuoco nero è il simbolo della Torah scritta mentre il fuoco bianco quello della Torah orale; per la tradizione esse sono inscindibili. Lo straordinario monologo che sabato 16 maggio presso l’associazione Harmonia Mundi di Roma Roberto Mercadini ha portato in scena fa tesoro di questo; con la sua spiccata vis comica il poeta di Cesena vivifica l’umorismo contenuto nelle pagine della Scrittura tracciando un percorso unico e divertente tra gli infiniti possibili.
Tutto parte dal libro più piccolo di tutta la Torah, l’unico in grado di contemplare una storia di mare; appena quarantotto versetti per raccontare le disavventure di uno dei profeti di Israele. Mercadini simula in ebraico biblico la voce imperiosa e decisa del Signore che nel cuore della notte si rivolge a Giona, il cui che significa colomba, esortandolo a raggiungere Ninive. Il pover’uomo privo di ogni scaltrezza e sprovvisto di saggezza pratica procede per la strada opposta arrivando in Spagna; la sua goffaggine e la sua inesperienza sono per il monologhista il pretesto per un’esilarante divagazione che rimarca con una tagliente ironia l’inettitudine dei grandi eletti: Dio provi un inspiegabile gusto a scegliere proprio le persone meno adatte a compiere quanto gli viene chiesto. Allora ecco che quando serve un uomo per fondare un popolo l’Onnipotente nomina Abramo con i suoi settantacinque anni ed una moglie sterile; quando serve un grande oratore per guidare gli ebrei e liberarli dalla schiavitù degli egiziani il prescelto è Mosè con la sua “lingua pesante” che sta ad indicare una innata balbuzie; quando contravvenendo al volere del Signore i suoi fedeli gli chiedono un re egli sceglie Saul, seguendo – dice scherzoso Mercadini – il più irragionevole dei criteri per un tale ruolo, predilige il bello; o infine – e questo momento rappresenta uno dei culmini dello spettacolo – quando bisogna far fronte al più grande dei guerrieri, Golia, lo sfidante è un pastorello ingenuo e ostinato che ha per armi un modesto bastone e una fionda che per un duello è pressoché inutile.
Nel mare della tempestosa sapienza ebraica vengono attraversati anche gli altri tre capitoli del libro di Giona; l’episodio dei tre giorni e delle tre notti trascorse nella pancia di un pesce; la profezia urlata nella città con un corpo esausto e la successiva depressione, ed infine il faccia a faccia irrisolto tra l’inconsolabile Giona che dopo aver salvato un’intera città lamenta la mancata realizzazione del suo vaticinio e Dio; l’intero dialogo rappresenta l’interminabile confronto tra l’autorità e gli uomini. A suffragio dell’inconcludenza di questo epilogo il comico narra la parabola che ha come protagonisti il più grande dei maestri rabbi Eliezer e gli altri esperti del Talmud i quali discutono in merito ad alcuni complessi precetti. Anche qui l’agone verbale non conduce ad alcun esito e la ragione pare essere lontana da entrambe le parti in causa.
Prima di congedarsi dal pubblico, saziato dalla sua fervida affabulazione, intessuta di schegge interpretative spesso al di fuori di ogni schema esegetico, Roberto Mercadini recita una deliziosa poesia tratta dalla sua raccolta Madrigali per surfisti estatici; i versi sono un’inno al movimento e riflettono il potere magmatico che anima la sua arte. Ricusando l’attesa inerte invitano a trovare posto nel mondo per arrivare a sentirsi ammessi in quel regno splendido ed eternamente mutevole che è la creazione.