Reddito minimo garantito: cosa insegna l’Europa
«Il Parlamento europeo, nella sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea, ha auspicato l’introduzione in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri». Nonostante i proclami, le accuse e le rivendicazioni, quella del reddito minimo garantito non è un’idea dei Cinque Stelle: per l’Europa dovremmo averlo istituito già dal lontano 1992, quando è stata emanata la direttiva 92/441. Ma, si sa, se siamo sempre pronti a nasconderci sotto il mantra “ce lo chiede l’Europa” quando si tratta di spazzare via i diritti e sputare lacrime e sangue, non siamo altrettanto solerti nell’allinearci alle decisioni comunitarie quando si tratta di andare nella direzione opposta, quella del riconoscimento dei diritti. Ai pentastellati va, senza dubbio, il merito di aver portato il tema all’attenzione nazionale. Il modo in cui la discussione è stata portata avanti – sul blog, nelle piazze e durante manifestazioni come la marcia di domenica –, però, è stato spesso superficiale e demagogico e, in fondo, fuorviante. Non soltanto rispetto all’effettiva copertura economica del provvedimento presentato alla Camera, quanto piuttosto per la confusione, soprattutto terminologica, che ha accompagnato il dibattito. Nel discorso politico e mediatico, la misura di sostegno economico è stata presentata alternativamente come “reddito minimo garantito”, “reddito di cittadinanza” o, addirittura, come “reddito minimo di cittadinanza”. Peccato che i termini non siano equivalenti.
Il reddito minimo e il reddito di cittadinanza sono profondamente diversi. Mentre il secondo, come si evince facilmente dal nome, è un contributo economico erogato dallo Stato a tutti i cittadini del Paese – in maniera universale e illimitata, non condizionata dalla disponibilità a lavorare – il primo (quello di cui, al netto dei termini utilizzati, si discute effettivamente) riguarda un segmento delimitato della popolazione, definito secondo criteri più o meno rigidi. L’Italia, assieme a Grecia e Ungheria, è uno dei tre Paesi dell’UE che attualmente non prevede alcun tipo di sostegno economico ai cittadini indigenti. L’Ungheria ha iniziato a muoversi in questa direzione già dal triennio 2007-2010 mentre la discussione italiana – dopo la retromarcia sulla sperimentazione del reddito minimo d’inserimento nel 2003 – è stata rianimata proprio dalla battaglia del MoVimento 5 Stelle, e anche Pd e Sel hanno presentato la propria proposta in Parlamento. Ma qual è la situazione fuori dai confini nazionali?
Sfatiamo subito ogni mito: in nessun Paese è previsto il reddito di cittadinanza – che risulterebbe estremamente oneroso per le casse statali – come evidenzia Gianluca Busilacchi nello studio “Le basi dell’Europa sociale: modelli di reddito minimo nell’UE dei 27”: «Nessuna di tali misure presenta la caratteristica dell’universalismo e dell’incondizionalità che riguarda invece il reddito di base. […]Uno dei tratti più comuni delle nuove misure di RM […] è la presenza di requisiti legati alla disponibilità di intraprendere percorsi di formazione o di ingresso nel mondo del lavoro, da parte del richiedente, per avere accesso alla prestazione monetaria». La disponibilità a lavorare, quindi, è un requisito determinante per accedere al reddito minimo in ciascuno dei Paesi d’Europa. Si va dalle differenze sui requisiti di base per ottenere i sussidi (età, residenza, nazionalità) a quelle sulla durata, anche se questo secondo aspetto risulta più omogeneo. Nonostante la teoria della “trappola della povertà” – secondo cui «un’erogazione monetaria a tempo indeterminato possa determinare nei beneficiari forme di “pigrizia” e di “intrappolamento”, che li spingerebbero a non cercare un lavoro e ad adagiarsi nell’assistenza di Stato» –, infatti, la maggioranza dei sussidi ha carattere illimitato.
Quello che cambia, soprattutto, è la determinazione della soglia minima, definita o da decreti governativi annuali o da indicatori specifici cui fare riferimento nell’individuazione del valore-soglia. In Austria, Cipro e Lituania sono i “panieri di beni”, che individuano i bisogni di base della popolazione, e indicatori statistici; «a Malta, in Olanda e Lussemburgo [la soglia minima] è invece legata al valore del salario minimo (di cui rappresenta una quota), in Portogallo a quello della pensione sociale, mentre in Danimarca si tratta del 60% dell’importo dell’indennità di disoccupazione per famiglie senza figli e dell’80% per quelle con figli». L’assenza di un patrimonio – o la sua limitatezza – non è necessariamente la conditio sine qua non per l’erogazione del sussidio anche se Austria, Svezia, Regno Unito, Cipro, Malta, Slovenia e Romania richiedono una “prova dei mezzi”, ovvero una valutazione del patrimonio del richiedente, oltre che del suo reddito.
A variare, però, non sono soltanto i criteri per individuare i cittadini destinatari dei sussidi: il contributo erogato dallo Stato varia notevolmente da Paese a Paese, con differenze interne a seconda della composizione del nucleo familiare. A spiccare sono le cifre a tre zeri erogate d Lussemburgo e Danimarca, i cui sussidi minimi sono superiori ai mille euro per una persona sola. Belgio, Regno Unito, Olanda, Norvegia e Irlanda si attestano tra i 500 e i 1000, mentre la maggioranza non raggiunge i cinquecento euro mensili (in alcuni casi si ferma a poche decine di euro), una cifra spesso notevolmente inferiore a quella della soglia di povertà. Si va dai 19 euro della Bulgaria ai 441 della Francia, e sono molti i Paesi in cui i sussidi non superano i 200 euro mensili. Anche se l’analisi dell’importo del sussidio andrebbe studiata in relazione alle condizioni di vita e al potere d’acquisto nei singoli Paesi, complessivamente – considerando l’ammontare del sussidio, la durata, la “prova dei mezzi” e le integrazioni e i diritti connessi al Reddito Minimo – a risultare più “generosi” sono Danimarca, Lussemburgo e Belgio, mentre la maglia nera va alla Lituania, seguita da Lettonia, Polonia, Francia e Bulgaria.
Vedremo quale modello sceglierà – se e quando lo sceglierà – l’Italia. Che siano i 780 euro proposti dai 5* – una proposta che sembra decisamente irrealizzabile –, i 600 di Sel, i 500 proposti dalla sinistra del Pd o ancora i 400 euro del progetto Sia (Sostegno per l’inclusione attiva) del progetto sperimentale Boeri-Guerra, tutto è nelle mani del Parlamento. Vedremo se sarà davvero la famosa “volta buona” per garantire a tutti un’esistenza più dignitosa grazie a una misura che potrebbe avere un impatto ben maggiore degli 80 euro in busta paga o se, ancora, dovremo accontentarci di vuoti proclami e inutili chiacchiere.