Siamo stati tutti Charlie, ora chi è il Kenya?
Alcune tragedie sono più tragiche di altre, ormai lo sappiamo. Alcune morti fanno più rumore, alcune vittime sono più vittime di altre. Sulle pagine dei giornali, nelle commemorazioni dei governi, persino nel fondo dei nostri cuori, alcuni eventi assumono una rilevanza simbolica mentre altri, seppure altrettanto terribili e sconvolgenti, rimangono relegati al rango di drammi di serie B.
Se n’è accorto persino Flavio Briatore che i centoquarantotto studenti uccisi brutalmente dalle milizie di al Shabaab nell’università keniota di Garissa non hanno scatenato la stessa ondata di reazioni e la stessa compartecipazione – mediatica, politica, umana – delle vittime dell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. I giornali italiani, invece, hanno preferito riportare le parole dell’imprenditore del Billionaire – proprietario di un resort in Kenya – invece di chiedersi perché, se due mesi fa tutti (ma proprio tutti) siamo stati Charlie, oggi quasi nessuno possa dirsi keniota. Sono lontani, infatti, i proclami e i politici di mezzo mondo scesi a marciare l’uno accanto all’altro mentre in ogni parte del globo risuonava il grido #jesuischarlie. Di fronte all’orrore dei corpi degli studenti trucidati nel campus la risposta della comunità internazionale è stata lenta, insufficiente o, semplicemente, non c’è stata. Forse di questa strage non avremmo nemmeno sentito parlare – o avremmo avuto solo degli echi lontani, derubricandola a ennesimo bagno di sangue in terre barbare e lontane – se la maggior parte delle vittime non fosse stata – o non fosse ritenuta – cristiana. Così, nell’opinione pubblica – o meglio, nell’opinione di chi sa cosa sia accaduto il 3 aprile – quella compiuta non è una semplice carneficina, ma una «strage di cristiani», inserita in una più ampia «guerra contro i cristiani». Nelle interpretazioni dei commentatori l’attacco non è che un episodio di un conflitto religioso che ha come uniche vittime – dimenticate – i cristiani. Peccato che, in Africa come nel mondo, siano migliaia le vittime musulmane a morire non solo per mano dei cristiani ma anche degli stessi musulmani che hanno attaccato l’università di Garissa.
Chi lamenta la scarsa attenzione nei confronti della strage lo fa appellandosi proprio al fatto che le vittime fossero «cristiane» e quindi «scomode» per i Paesi che «hanno paura di difenderle per non intaccare la laicità dello Stato», «dimenticate», «di serie B» perché «fa più fico esse tutti “vignettisti francesi” che “cristiani e pure negri”». Insomma, secondo molti le vittime cristiane sembrano non meritare la stessa indignazione “dei vignettisti radical chic che comunque un po’ se l’erano cercata”. Se tutto il mondo non si è alzato in piedi di fronte a queste morti, però, non è perché le vittime sono cristiane e quindi ignorate (ma quando mai). Se il sangue di (almeno) centoquarantotto morti non ha smosso la politica e l’opinione pubblica come in gennaio è perché la strage è avvenuta in Kenya, Paese dimenticato nel cuore di un Continente dimenticato. Quei morti sono di serie B – o C – non perché credessero in un Dio piuttosto che in un altro ma perché, agli occhi dell’Occidente, l’Africa rimane un continente di serie B, o C, condannato da un fato avverso a un destino di povertà e violenza contro cui è inutile alzare la testa. Proprio contro il silenzio della comunità internazionale, che sembra risvegliarsi solo per le vittime europee – meglio se di carnefici musulmani – si è mobilitata la rete. A poche ore dalla notizia dell’attentato, l’attivista Ory Okolloh Mwangi ha lanciato l’hashtag #147notjustanumber (il numero delle vittime è salito quando si era già diffuso su Twitter), una campagna virale per mostrare l’umanità dietro ai numeri, uno sforzo per «umanizzare le vittime del terrore». Come? Mostrando i loro volti e i loro nomi, uno a uno. Per non dimenticarli. Per non distogliere lo sguardo, da loro e dall’Africa.
Siamo abituati da tempo all’indifferenza verso le periferie del mondo, verso quei Paesi che sentiamo “altro da noi”. Un attacco nel cuore dell’Europa scuote le fondamenta del nostro ordine di pensiero, l’immedesimazione con le vittime è immediata e la forza della contrapposizione tra “noi” e “loro” palpabile. Le immagini delle vittime africane, mediorientali o semplicemente lontane dal nostro orizzonte di pensiero, invece, scorrono sugli schermi delle nostre televisioni come se la violenza in quello che continuiamo a considerare “il Terzo Mondo” fosse scontata, ineluttabile. L’immagine dei corpi dei ragazzi a terra – l’avremmo mai vista se la strage fosse avvenuta in Italia, in Francia o negli Usa? – non ci fa sentire immediatamente parte di quello che è successo. Per qualcuno, anzi, per identificarci completamente con quei corpi dovremmo addirittura scolorirli col pensiero, immaginarceli chiari, proprio come noi. Eppure quei ragazzi siamo già noi. E non perché professassero la religione che permea la cultura occidentale né perché siano stati attaccati dai jihadisti islamici. Quei ragazzi siamo noi perché, prima che cristiani, erano studenti. Studenti uccisi in un’università, un luogo che – come la sede di un giornale – è molto più di un edificio, è un simbolo. E il luogo dove inizia la strada dell’emancipazione, del pensiero critico, della tolleranza, della libertà. Il luogo dove giovani cristiani e musulmani, fianco a fianco, studiavano assieme, vivevano assieme, crescevano assieme. Il luogo dove la coesistenza era realtà. Siamo stati tutti Charlie perché l’attacco alla redazione parigina ha fatto di Charlie Hebdo il simbolo della libertà d’espressione che non si piega di fronte a chi vuol farla tacere. La risposta che dobbiamo dare oggi, di fronte a quei giovani corpi senza vita, non è “siamo tutti cristiani”, con buona pace di chi legge nell’attacco di Garissa un mero scontro di religioni o civiltà. La risposta, l’unica possibile, è «siamo tutti studenti».