Israele, chi vince e chi perde
“Clamorosa”, “sorprendente”, “ampia”, “schiacciante”, “larga”, “chiara e solida”, “grande”. Dall’Associated Press al Guardian, dal New York Times a Ha’aretz, da Le Monde al Jerusalem Post nessuno ha dubbi: quella di Netanyahu alle elezioni israeliane è una vittoria incondizionata. Contro i sondaggi che a pochi giorni dalle elezioni lo davano dietro alla formazione laburista Campo Sionista e gli exit poll che annunciavano un testa a testa, Likud ha vinto le elezioni. Anzi, le ha stravinte.
I sondaggi lo volevano fermo a venti seggi, ma il partito guidato dal Premier ha raggiunto i trenta dopo il conteggio del voto dei soldati, staccando la coalizione di Herzog – alleato con il partito centrista Hatnuah di Tzipi Livni – che si è fermata a ventiquattro. Ora, è scontato l’affidamento dell’incarico di guidare il nuovo governo da parte del Presidente Reuven Rivlin, e resta soltanto da vedere se e come Netanyahu riuscirà a formare una maggioranza in Parlamento. A quelli vinti da Likud potrebbero presto aggiungersi gli undici seggi del partito di centro Yeash Atid e quelli della destra sociale di Moshe Kahlon, che ne ha conquistati dieci. La possibilità di un esecutivo di unità nazionale, che sembrava essere una via percorribile nelle prime ore dopo il voto, è stata esclusa dai vincitori, che hanno subito guardato alle destre come possibili alleate di un governo che – dicono – dovrebbe essere realtà già nelle prossime due o tre settimane. Con il successo di Netanyahu e i nuovi potenziali alleati – tra cui il partito antiarabo ultra-nazionalista Yisrael Beitenu che, dato dai sondaggi fuori dal Parlamento, ha inaspettatamente conquistato ben sei seggi – l’asse politico del Paese si sposta sempre più a destra, con buona pace di chi aveva sperato nella vittoria – cantata troppo presto – dei laburisti. «Sono fiero per la grandezza di Israele, ora dovremo formare subito un esecutivo nazionalista forte e stabile» ha dichiarato il neoeletto Premier.
Il vero vincitore, più che il partito, sembra essere proprio lui, “Bibi”. Che ha scommesso in un colpo di forza, decidendo di andare alle elezioni anticipate e trasformando questo voto in un referendum sulla sua leadership più che in una comune elezione. Che aveva promesso di opporsi a qualsiasi rivendicazione di autodeterminazione da parte dei Palestinesi. Che ha insistito sulla costruzione delle colonie nella Cisgiordania occupata. Che ha chiuso ogni porta alla possibilità di un negoziato con l’Iran sul nucleare. Non solo ha vinto lo status quo, ma una versione di Likud e del Premier ancor più radicale, spostata verso la destra più estrema e nazionalista. Del resto, mai come prima d’ora Netanyahu aveva detto con così tanta chiarezza – come ha fatto a pochi giorni dal voto – «non permetterò mai che sia creato uno Stato palestinese». Lo scontro si preannuncia più che mai forte. Dal 1° aprile, infatti, lo Stato Palestinese entrerà a far parte della Corte Penale Internazionale e potrà chiedere di aprire un’indagine nei confronti di Israele per i crimini di guerra. E anche in patria il successo della Lista Araba Unita, la formazione in cui si sono alleati i quattro partiti arabo-israeliani – United Arab List, Ta’al, Balad e Hadash – per superare lo sbarramento al 3,5% (il più alto di sempre) è stato significativo. Con quattordici seggi guadagnati, questa coalizione nata da poco è la terza forza politica del Paese e – anche se resterà confinata all’opposizione – porta nella Knsesset la rappresentanza della minoranza palestinese, il 20% della popolazione.
A perdere queste elezioni non è stato tanto il partito laburista o la sinistra sionista di Meretz, che ha conquistato soltanto quattro seggi. Chi perde davvero è il processo di pace, chi sperava in un cambiamento, il milione e mezzo di cittadini arabi dentro lo Stato di Israele che il Premier ha dipinto come “nemici interni”, i palestinesi dei territori occupati. In fondo, chi perde è anche Israele, che ha scelto di non cambiare, che ha scelto di affidare, per la quarta volta, la guida del Paese a chi ha puntato tutto sulla paura e sull’incertezza del futuro, che ha scelto di chiudersi su se stesso in quello che rischia di diventare un pericoloso isolamento.