Sequestro Moro: una storia italiana

“Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro allo scopo di stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate Rosse avrebbero potuto liberare Moro conquistando un grande successo ed aumentando la loro legittimità. Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una unanime repulsione contro questo gruppo di terroristi e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti. Il prezzo da pagare è stata la vita di Moro. E’ stata la prima volta nella storia della mia carriera in cui mi sono ritrovato a sacrificare la vita di un individuo per la salvezza di uno Stato. Il cuore delle mia strategia era che nessun individuo è indispensabile allo Stato. Il nostro è stato un colpo mortale preparato a sangue freddo. La trappola era che loro dovevano uccidere Aldo Moro. Loro pensavano che io avrei fatto di tutto per salvare la vita di Moro, mentre ciò che è accaduto è esattamente il contrario. Io li ho abbindolati a tal punto che a loro non restava altro che uccidere il prigioniero. Cossiga aveva capito molto bene quali fossero i giochi. Io non avevo rapporti con Andreotti ma immagino che Cossiga lo tenesse informato. La decisione di far uccidere Moro non è stata presa alla leggera, abbiamo avuto molte discussioni, anche perchè non amo sacrificare vite. Cossiga ha saputo reggere questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente difficile soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata presa da Cossiga e, presumo, anche da Andreotti.”
Steve Pieczenik.

La mattina del 16 marzo del 1978 un commando delle BR uccidendo cinque agenti di scorta rapì, in via Fani, l’onorevole Aldo Moro, presidente della DC, prima che si recasse in Parlamento dove il neonato governo Andreotti avrebbe poi ottenuto la fiducia con una maggioranza schiacciante grazie all’appoggio esterno del PCI. Il 9 maggio, dopo 55 giorni durante i quali lo Stato nella persona del ministro dell’interno Francesco Cossiga si “impegnò” nella ricerca del luogo di prigionia del politico, Aldo Moro venne trovato morto in una Renault in via Caetani mettendo fine ad una vicenda emblematica della storia patria nota come sequestro Moro. Questa è in estrema sintesi la “storia”. O no?
Pare proprio che le cose non siano così semplici. Infatti in ogni suo singolo aspetto tutta la vicenda potrebbe essere riscritta in modo molto o addirittura completamente diverso a partire proprio da quel fatidico 16 marzo, a partire dalla vera entità numerica e dalle identità dei partecipanti all’agguato. Pur non essendoci affatto dubbio che siano stati il gruppo delle BR, certo è anche che tutta la verità non è mai stata detta: le dichiarazioni dei brigatisti in merito sono non solo contraddittorie tra di loro, ma anche con le dichiarazioni dei testimoni e con molti rilievi oggettivi a partire da quelli balistici, tanto che ora l’unica certezza che abbiamo è quella di non sapere.

Dopo il rapimento il ministro dell’interno Cossiga ha richiesto l’aiuto degli Stati Uniti. Dopo un primo rifiuto, solo a causa delle insistenze italiane, il presidente Carter mise a disposizione del governo italiano Steve Pieczenik allora capo dell’Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato USA ed esperto in situazioni di crisi con presenza di ostaggi.
Ecco come fu la sua presa di contatto col mondo italiano con cui avrebbe dovuto collaborare per liberare il politico: « Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo l’uomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi un’idea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e… ecco, alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati». Questa la prima impressione. Poi nei giorni successivi, durante il lavoro del comitato di crisi…« Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all’esterno. Lo sapevo perché ci fu chi – persino le BR – rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostro gruppo. C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto”. “Sì” rispose lui “lo so. Da molto in alto”. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi. »

Pieczenik, inviato in Italia col pedigree del liberatore di ostaggi si trova di fronte ad una situazione molto più complessa: « Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all’interno del Paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un’interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. […] Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile. Il tempo, necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta e ridare un po’ di fiducia all’economia. Bisognava fare attenzione sia a sinistra sia a destra: bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra. Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia. »

Forse, lo psichiatra Pieczenik era riuscito ad essere utile al governo italiano più come esperto di guerra psicologica che come mediatore in casi di terrorismo con presenza di ostaggi. Il superconsulente statunitense ufficialmente avrebbe fatto ritorno in patria il 16 aprile (secondo alcuni anche qualche giorno prima), quindi molto prima che la vicenda arrivasse al drammatico epilogo del 9 maggio, forse proprio a causa del fatto che la sua abilità di trattare per la liberazione di un ostaggio non fosse proprio la priorità del Paese che l’aveva chiamato o almeno di una parte molto influente di questo.