Suite francese: l’incredibile storia di una storia incredibile
Undici anni fa un manoscritto rimasto chiuso in una valigia per oltre mezzo secolo venne pubblicato. La sua autrice era morta ad Auschwitz nel 1942, lasciando alle sue due bambine un cumulo di fogli e alla loro tutrice il compito di salvarle. In quel 1942 la famiglia Epstein in pochi mesi scomparve; il signore e la signora Epstein cessarono di vivere nel campo di concentramento a 81 giorni di distanza l’uno dall’altra, la piccole Denise ed Élisabeth, inghiottite dall’ombra della fuga, semplicemente smisero per tutti di esistere. Inseguite dai nazisti nella stessa Francia in cui erano nate e battezzate cristiane, figlie di genitori cittadini russi e francesi da decenni ma comunque “stranieri di razza ebraica” – figlie di Irène Némirovsky – Denise ed Élisabeth trascinarono nei conventi, nelle cantine e nei rifugi in cui si nascosero il poco che era rimasto della loro vita precedente: fotografie, documenti, qualche lettera e i fogli che avevano visto la madre scrivere affannosamente fino al giorno prima di essere portata via per non tornare più. Fogli pieni di parole scritte con una grafia minuscola per risparmiare carta e inchiostro, mentre la famosa Irène Némirovky, l’autrice dell’acclamato “David Golder”, una delle menti e delle penne più stimate della Francia prebellica, era costretta a chiedere ai suoi editori uno stipendio per sopravvivere in anni in cui a lei, ebrea, era proibito pubblicare. Fogli mai letti da due figlie che non avevano la forza di scoprire quali erano state le ultime parole della madre, convinte che altro non contenessero che il diario personale di una donna che sapeva di essere in pericolo.
E invece ciò che Denise lesse con una lente di ingrandimento 50 anni dopo essere sopravvissuta allo sterminio della sua gente e della sua famiglia, non furono le confessioni di un animo disperato ma un affresco lucido, razionale, a tratti crudele ed incredibilmente consapevole di un popolo in guerra, di una nazione appena occupata dal nemico. Quello che vi trovò fu l’inizio di una storia che sarebbe stata incredibile se l’autrice avesse avuto il tempo di terminarla e che forse lo è comunque proprio per questo; una storia che si sarebbe potuta perdere nella precarietà della fuga e del tempo ma che è giunta sino a noi con vicende altrettanto incredibili. Undici anni fa un manoscritto rimasto chiuso in una valigia per oltre mezzo secolo venne pubblicato. Oggi 165 copie della pellicola che ne porta il nome corrono per l’Italia e fanno sapere ad un Paese in cui più della metà dei cittadini non legge neanche un libro l’anno che “Suite francese” esiste.
Se siete tra i privilegiati che hanno avuto la fortuna di ascoltare le parole della Némirovsky direttamente dalla sua penna, andate al cinema: vedrete un buon film, con dei bravi attori (e una Michelle Williams meravigliosamente corrispondente alla descrizione dell’autrice), l’elegante regia di Saul Dibb, una colonna sonora che vi accompagnerà per 107 minuti e una fotografia magistrale. Se invece non vi siete mai imbattuti nelle vicende di Lucile e Madame Angellier, di Bruno Von Falk e di tutti gli altri personaggi, andate al cinema con la consapevolezza che vedrete solo una pallida ombra del microcosmo creato dall’autrice, un accenno che vi farà appena intuire la grandezza e l’umanità che traspirano da ogni poro della sua opera. In primis perché nel film si è scelto di raccontare solo una delle due parti che compongono il romanzo e che, insieme alle altre tre mai scritte, avrebbero dovuto costituire un’unica sinfonia scandita da un ritmo che la Némirovsky definiva, non a caso, “cinematografico”. Nei 107 minuti trovano quindi spazio Lucile e Bruno, la dura signora Angellier, i cittadini di Bussy e la loro vita invasa dalla guerra e dall’arrivo dei parigini in fuga dalla città bombardata. Ma se qui questi parigini arrivano dal nulla, da una città evocata solo per nome, nell’opera da cui la storia è tratta le pagine a loro dedicate sono tante e piene di tutto, di ogni sentimento si possa provare quando la quotidianità della gente comune viene stravolta dall’arrivo della morte. E così nelle sale cinematografiche “Suite francese resta” il racconto di una bella storia d’amore, forse non “la più grande storia d’amore mai raccontata” come recita il sottotitolo sulla locandina, ma comunque un’oggettiva bella storia di un amore impossibile o quasi. Ma nella realtà – o almeno quella creata dalla mente che ha immaginato tutto questo – l’amore è solo una, e probabilmente la meno importante, delle cose descritte. “Suite francese” non è una storia d’amore, ma di crudeltà e umanità, di intolleranza e compassione, di paura e coraggio, di ingiustizie, di disperazione e speranza. È l’immagine della massa e al tempo stesso dei singoli individui, «come la musica in cui si sente a volte tutta l’orchestra, a volte il violino solo», fotografati in un momento tanto estremo da smascherarne la vera natura. Quella natura umana che Irène Némirovky aveva imparato a conoscere e di cui lei, ebrea nella Francia occupata della seconda guerra mondiale, sapeva che ne avrebbe fatto presto le spese («Caro amico, non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo», disse al suo editore poche ore prima dell’arresto).
Lei, fuggita da Parigi come i personaggi che descrive e perseguitata come molti di loro, è riuscita a raccontare la storia che lei stessa stava vivendo, a comprendere gli avvenimenti mentre questi accadevano. Non le è servito quel distacco temporale che dà a tutti noi l’impressione di saper interpretare e giudicare il corso degli eventi. Lei, consapevole che probabilmente la sua fine sarebbe presto giunta per mano del nemico, fa innamorare Lucile del tedesco Bruno e rende eroi i coniugi Michaud per essere riusciti a preservare la loro umanità fino in fondo. “Suite francese! è il lucido ritratto di un’Europa impazzita e degli esseri che vi si muovono dentro, descritti con un’onestà spiazzante e quella sensazione di fastidio che si prova guardandosi come in uno specchio e riconoscendo in ognuno dei personaggi un po’ di noi stessi. Undici anni fa un manoscritto rimasto chiuso in una valigia per oltre mezzo secolo venne pubblicato. La sua autrice era morta ad Auschwitz nel 1942. Allora nessuno la salvò. Mezzo secolo dopo il tempo ha fatto ciò che gli uomini da lei raccontati non seppero fare.
«Sulle tracce di mia madre e di mio padre, per mia sorella Élisabeth Gille, per i miei figli e i miei nipoti, questa Memoria da trasmettere, e per tutti quelli che hanno conosciuto e ancora oggi conoscono il dramma dell’intolleranza». Denise Epstein (1929-2013)