Cina, i diritti umani tornano al 1989
Mai cosi male da venticinque anni. Invece di andare avanti, la Cina torna indietro sul fronte dei diritti umani. A segnalarlo era stata già Human Rights Watch nel World Report 2015. Ora una nuova denuncia arriva da Civil Rights and Livelihood Watch: la situazione, rivela la ong, ha toccato il picco peggiore dell’ultimo quarto di secolo.
«L’ultimo anno è stato il più crudele dal 1989». Complice il cambio della guardia al governo e la volontà di assicurare “il mantenimento della stabilità”, cui tutto può e deve essere sacrificato – e per cui è stato previsto un sostanzioso stanziamento di oltre trenta milioni di dollari – il 2014 si è chiuso all’insegna dei peggiori auspici. Aumento del controllo sul Paese da parte del governo centrale, oltre 2.200 casi di arresti – sia domiciliari che in carcere –, detenzioni da parte della polizia, vacanze forzate e altri mezzi coercitivi: «Il regime di mantenimento della stabilità sta diventando sempre più rigido; si potrebbe dire che sta diventando sempre più brutale, sempre più disumano». A essere colpiti da misure che si fanno sempre più violente, secondo il report, sono avvocati, scrittori, giornalisti, accademici, attivisti e dissidenti politici di tutto il Paese. Non c’è spazio per la libertà d’espressione, il controllo e la censura sui media sono stati intensificati, così come il potere della polizia che, oltre a detenzioni e pestaggi, ha mezzi intimidatori non violenti di pressione e coercizione sui “dissidenti”. I controlli sono aumentati in particolare in occasione delle ricorrenze, con rastrellamenti fisici e sul web sempre più intensi per scovare chi tenta di infrangere il velo di silenzio e la damnatio memoriae. In occasione dei venticinque anni della rivolta di Piazza Tian’anmen, grazie alla scusa della lotta al terrorismo la repressione è stata durissima, e in molti sono stati arrestati con l’accusa di «raduno illegale» e «reati di ordine pubblico». Addirittura, c’è chi è stato imprigionato, come Pu Zhiqiang, solo per essersi riunito in un appartamento con degli amici per commemorare quello che il Partito ricorda come «l’incidente del 4 giugno».
La situazione, ogni giorno più allarmante, era stata denunciata già all’inizio di gennaio dal report annuale di Human Rights Watch, che definiva la Cina «uno stato autoritario, che nega sistematicamente i diritti fondamentali, tra cui la libertà di espressione, di associazione, di riunione, e di religione, quando il loro esercizio è percepito come una minaccia per il regime a partito unico». Non bastano i pochi passi positivi – l’abolizione del sistema arbitrario dei campi di rieducazione attraverso il lavoro o l’annuncio di riforme riguardo alle migrazioni interne – per risollevare un bilancio drammatico. «Le autorità hanno scatenato un attacco straordinario ai diritti umani fondamentali e ai loro difensori con una ferocia mai vista in questi ultimi anni, un segnale allarmante, dato che l’attuale leadership probabilmente rimarrà al potere attraverso 2023. Dalla metà del 2013, il governo cinese e il Partito comunista (PCC) hanno emanato direttive che insistono sulla ideologia “corretta” tra i membri del partito, docenti universitari, studenti, ricercatori e giornalisti». Per chi si oppone, la strada è segnata: «gli attivisti devono affrontare sempre più spesso la detenzione arbitraria, l’imprigionamento, l’internamento in strutture psichiatriche o gli arresti domiciliari. L’abuso fisico, le molestie e le intimidazioni sono di routine. La scure del regime, però, non si abbatte solo su chi contesta il Sistema, ma anche su chi sembra minarlo con il solo fatto di esistere: in nome della «lotta al separatismo, all’estremismo religioso e al terrorismo», continuano le tensioni nella regione autonoma dello Xinjiang Uighur (XUAR), in cui la discriminazione etnica, religiosa e culturale è ogni giorno più pervasiva e violenta. E la situazione non è migliore in Tibet, dove «le autorità sono intolleranti nei confronti delle proteste pacifiche dei tibetani, e hanno risposto con pestaggi e arresti alle proteste contro le mine su terre considerate sacre e contro la detenzione dei leader tibetani».