Kobane, resistenza e libertà
Il vessillo nero non sventola più. Kobane è libera. Dopo mesi di assedio, bombardamenti e distruzione, la città simbolo della resistenza di fronte all’avanzata dell’Isis è riuscita a scacciare i miliziani jihadisti dal 90% del suo territorio.
Milleseicento morti, centinaia di attacchi, la città ridotta a un cumulo di macerie. Il prezzo della libertà, per Kobane, è stato salato. Alla fine, però, nonostante la sproporzione di mezzi, hanno vinto loro, i resistenti curdi del Ypg e Ypj (Unità popolari di difesa e Unità femminili di difesa), i combattenti del Pkk turco, le truppe peshmerga arrivate dal Kurdistan irakeno e militari del Free Syrian Army. Hanno respinto l’«armata del terrore»: «oggi i resistenti kurdi e i loro compagni Kobani hanno raggiunto l’inimmaginabile: sono riusciti a cacciare i combattenti dello Stato Islamico (Isis) dalla città», si legge in un comunicato. Certo, i raid delle truppe alleate sono stati fondamentali, colpendo obiettivi strategici delle milizie del Califfato, ma a liberare Kobane sono stati questi uomini e donne coraggiosi, che troppo a lungo hanno dovuto affidarsi esclusivamente alle loro forze, abbandonati anche da chi l’Isis dovrebbe combatterlo. I bombardamenti della coalizione sono arrivati tardi e solo recentemente sono stati intensificati. La Turchia, a un tiro di schioppo, ha chiuso il confine, impedendo il passaggio a chi voleva portare aiuto, unirsi ai combattenti, portare soccorso. Solo negli ultimi giorni il governo di Erdogan ha concesso aperture selettive, mentre dal cielo – finalmente – assieme alle bombe iniziavano ad arrivare armi e aiuti.
Kobane, infatti, è uno dei capoluoghi del Rojava, la regione – dichiarata indipendente dai curdi siriani nel 2011 – in cui uomini e donne, insieme, stanno tentando di realizzare la «libertà democratica, ecologica e di genere», promuovendo l’emancipazione femminile e un sistema anti capitalistico basato sulle cooperative e sulla condivisione del beni e la convivenza pacifica tra etnie e religioni diverse. E il Rojava rappresenta un precedente pericoloso, proprio lì, a soli 800 metri dal confine. Così vicino che si può vedere.
Non sono bastate le bombe a fermare questo coraggioso progetto politico. Proprio la resistenza di pochi miliziani, di fronte a un esercito che sembrava avanzare indisturbato, si è trasformata in un richiamo capace di attirare persone da ogni parte del mondo, arrivate per difendere il Rojava e i suoi ideali. Per difendere la libertà, l’uguaglianza. E persino a Mehser, il campo profughi dal lato opposto del confine rispetto a Kobane, è nata una “casa delle donne”. Le abbiamo viste queste donne: molte di loro sono musulmane e lo rivendicano orgogliosamente. Le abbiamo viste con gli AK-47 in mano, le abbiamo viste combattere, le abbiamo viste lottare per proteggere non solo una città, ma una rivoluzione. Accanto agli uomini, come gli uomini. Uguali agli uomini. E se la liberazione della città militarmente non è risolutiva – da settembre a oggi, in Siria il Califfato ha raddoppiato la porzione di territori occupati ed è ormai presente in oltre un terzo del Paese – rappresenta comunque una vittoria fondamentale. A far ritirare i “tagliagole” dell’Isis, oggi, sono stati uomini e donne liberi e uguali, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. E anche se la loro lotta non è finita adesso, sulla collina di Mishnavour, conquistata una settimana fa dagli uomini di al-Baghdadi, è bandiera curda a essere sventolata.
@costipiccola