L’Altrove nei racconti di Fleur Jaeggy

 

Viviamo in un’epoca dove la maggior parte degli uomini somiglia sempre più a orchestrali smarriti – privati del loro afflato. Simile a un’ascia l’indomita ansia del fare minaccia di abbattere ogni giorno l’albero più prezioso radicato nell’anima di ciascun individuo: quello dell’ispirazione definita nel Webster’s Dictionary come «un influsso sovrannaturale che rende gli uomini atti a ricevere e a comunicare verità divine».
Nel chiassoso tumulto capita talvolta di imbattersi in fenomeni che hanno uno straordinario potere pacificante capace di riconciliarci con le arcane leggi della creazione evocando il profondo adagio di San Tommaso contenuto nella sua Summa: «l’arte è l’imitazione della natura nel suo modo di operare». Sono i miracoli della composizione, quella che sorge per opera di mani pazienti incuranti delle interferenze mondane. L’ultima raccolta di racconti di Fleur Jaeggy, Sono il fratello di XX edito da Adelphi, appartiene innegabilmente al novero di quest’ultimi.

Venti brevi narrazioni capaci, nello spazio esiguo in cui si dispiegano, di descrivere la fatale incompiutezza dell’esistenza. Quella che nega ad alcune vite di manifestare la verità del loro essere condannata a rapprendersi nel luogo indefinito dell’odio e della disperazione. Siamo nella terra d’elezione delle solitudini incomprese quelle irrimediabilmente mutilate della voce per esprimere il proprio disagio e a cui con rara pietà l’autrice ne ha donata una. Nel mondo ne sono numerose; qui alcune di esse trovano il loro diritto di esistere, quello sacrosanto di essere contemplate. Nell’essenzialità di una prosa che rifugge il superfluo e diventa un antidoto contro l’imperante verbosità. Nessuna deriva analitica offusca la lucidità con cui l’autrice mette in scena i suoi personaggi; il risultato è un osmosi perfetta tra la loro realtà interiore e l’ambiente che abitano e che li abita. Frasi corte come frammenti di pensiero conducono il lettore con insolita esattezza in quell’altrove dove emigrano queste anime reiette sospinte dalla loro tragica afasia. Ovunque si percepisce un gelo che intorpidisce e si è come marchiati dalla crudeltà di cui sono intrise le pagine; l’autrice diventa un medium attraverso il quale possiamo leggere la violenza inaudita di certe esperienze.

Già dopo la lettura del primo racconto, il più esteso, quello che dà anche il titolo al volume se ne esce storditi; protagonista lo sguardo di un ragazzo che ha consumato parte della sua vita ad identificarsi con la sorella “XX”, dal nome ignoto appunto. Nella volontà di assolvere i suoi dettami dissolve sé stesso. Il loro legame che nasce dalla relazione di due identità negate riflette la comune inconsistenza segnando un reciproco annullamento. Tuttavia, in un barlume di consapevolezza dove reagisce alla presunzione della sorella che crede aver compreso tutto della vita, il giovane espone una riflessione che ognuno dovrebbe incidere nel proprio cuore: «Le persone, quasi tutte non sanno preoccuparsi degli altri con finezza, modestia e senza presunzione […] Non mi piace la gente che sa. O mostra di sapere. Il sapere non sa. Ma questo pochi lo capiscono». È una delicata chiosa al sempre più desueto insegnamento socratico. Un invito scomodo a rivedere le nostre monolitiche certezze e il nostro inconfessato bisogno di giudicare il prossimo; a ribellarci alla violenta semplificazione della realtà.
«Finezza, modestia e senza presunzione» potrebbe diventare un mantra; un’invocazione sommessa perché queste rare virtù ci vengano concesse al fine di scongiurare l’asimmetria che abbrutisce la maggior parte dei rapporti umani.

Ma chi sono i protagonisti di queste terribili storie? Vi è il ragazzo di cui si è parlato sopra relegato in un collegio tra i sassi e le rocce di un monte, dalla cui sorella ha ricevuto in dono come fosse «un cappio, l’importanza di riuscire nella vita». Il poeta russo Josif Brodskij che, nell’inverno freddo di New York seduto su una panchina, «con un sentimento di reciprocità pensa al vuoto». Caspar, l’anziano scapolo circondato nella sua grande dimora svizzera dalla sua servitù e dai suoi cani, penosamente sopravvissuto alla sua famiglia. E poi Regula che «apprezza il vuoto in tutte le sue nuances» ed è attratta dai volti nei ritratti come quello di Lorenzo Lotto (Il gentiluomo e il ramarro) dove un giovane rivolge il suo sguardo lontano «verso l’ignoto che lo trascina altrove […] calmo e disperato». Una donna che ha perduto il proprio figlio e quella che vaga sulle sponde di un lago nella dolorosa ricerca della sua amica ricoverata in una clinica psichiatrica. E poi il gatto che dopo aver catturato la sua preda realizza la sua evasione puntando verso un altrove che gli consente di sancire il «malinconico disfarsi del legame con la vittima».

L’intera opera è circonfusa «dall’aura della spoliazione» e nell’atemporalità di questo vasto «involucro di privazioni» color cenere, la derelizione degli uomini danza la sua mancanza d’amore.

Fleur Jaeggy