Caso di omofobia: la Cassazione dispone maxi risarcimento
Si è concluso con un maxi risarcimento disposto dalla Corte di Cassazione, il caso di omofobia che tanto ha fatto discutere sia in Italia che all’estero. Si tratta della vicenda, a tratti surreale, che ha visto protagonista un giovane siciliano che nel 2001 si recò presso l’Ospedale Militare di Augusta per sottoporsi alla visita medica di leva. In quella sede, D.G, oggi trentacinquenne, dichiarò di essere omosessuale e di lì a poco si ritrovò sospesa la patente di guida.
Ora, la domanda sorge spontanea: qual è il legame causa-effetto che lega i due eventi? Il racconto dei fatti spiega l’opinabile consecutio: l’ospedale militare comunicò alla Motorizzazione civile che il ragazzo in questione non era “in possesso dei requisiti psicofisici richiesti” per poter guidare, e ne conseguì che la motorizzazione stessa mise in atto il provvedimento di sospensione della patente di guida, in attesa di una revisione all’idoneità. A questo punto D.G. iniziò la sua battaglia legale. In un primo momento il Tar di Catania sospese il provvedimento in atto sostenendo che l’omosessualità “non può considerarsi una malattia psichica” e restituì al ragazzo l’idoneità di guida. Contestualmente, fu presentata domanda di risarcimento danni ai ministeri della Difesa e dei Trasporti, ottenendo, in primo grado, un risarcimento di 100 mila euro. Una cifra che la Corte d’appello di Catania definì sproporzionata e che ridimensionò in 20 mila euro.
Pochi giorni fa e precisamente il 22/01/2015, arriva la svolta con la sentenza 1126 della Terza sezione civile della Corte di Cassazione con la quale è stato accolto il ricorso del giovane, vittima di un “vero e proprio comportamento di omofobia”. Tale sentenza dispone un nuovo giudizio davanti alla Corte d’appello di Palermo che è adesso tenuta a ri-quantificare al rialzo e liquidare il danno morale subito dal ragazzo. La Cassazione ha quindi condannato i due Ministeri, della Difesa e dei Trasporti, a corrispondere una somma maggiore, congrua ed equa, per avere leso il diritto fondamentale alla libertà della persona.
Nello specifico la Cassazione ha affermato che “il diritto al proprio orientamento sessuale, cristallizzato nelle sue tre componenti della condotta, dell’inclinazione e della comunicazione (coming out) è oggetto di specifica e indiscussa tutela da parte della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo fin dalla sentenza Dudgeon/Regno Unito del 1981″. Nel caso in questione, ha poi osservato la Suprema Corte: “nonostante il malaccorto tentativo della Corte territoriale di edulcorare la gravità del fatto, riconducendola ad aspetti soltanto endo-amministrativi, non pare revocabile in dubbio che la parte lesa sia stata vittima di un vero e proprio (oltre che intollerabilmente reiterato) comportamento di omofobia”. La “gravità dell’offesa appare predicabile con assoluta certezza”. A scanso di equivoci, gli ermellini di Piazza Cavour hanno bollato come “contraddittoria” la motivazione d’appello “quanto alla pretesa e silente circoscrivibilità dell’effetto espansivo del danno nella parte in cui la riconduce alla sola conoscenza (e alla presunta quanto indimostrata discrezione) dei soggetti pubblici che, dapprima all’ospedale militare, poi in seno alla commissione per la motorizzazione, si erano occupati del caso”.