Raif Badawi, l’Arabia Saudita frusta la libertà d’informazione
Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci… Una frustata dopo l’altra, mentre la folla guarda, fino ad arrivare a cinquanta. Per punire chi ha osato parlare, chi ha osato sfidare il regime. Una tortura che dovrebbe ripetersi settimana dopo settimana, puntuale ogni venerdì finché le frustate non saranno mille. Mille. Ma il corpo di Raif Badawi già non ce la fa più a sopportare. Dopo la prima “razione” – come molti giornali l’hanno definita – il 9 di gennaio, le autorità hanno dovuto rimandare per due volte la seconda fustigazione. Le ferite non si sono cicatrizzate e, secondo i medici, il blogger trentunenne non è in grado di sostenere altre cinquanta frustate.
Il bastone si abbassava sul corpo di Raif mentre a Parigi e nel mondo si alzavano le matite e si piangevano i morti degli attentati che hanno sconvolto il cuore dell’Europa. La sua schiena era ancora sanguinante mentre l’ambasciatore saudita Mohammed bin Ismail Al Al-Sheikh sfilava in mezzo ai grandi della terra alla Marche Républicaine. La stessa Arabia Saudita che ha condannato l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo non è affatto clemente con i liberi pensatori di casa propria. Badawi è in carcere dal 2012, quando è stato accusato di apostasia e offese all’Islam, reati punibili con la morte. La sua colpa è aver tentato di aprire una discussione sul sistema politico e religioso del Paese, quindi sul ruolo della religione nella società. Sul suo sito “Free Saudi Liberals”, e sui social dal 2008, ha denunciato le contraddizioni di uno Stato in cui ogni cosa è proibita, dalle libere elezioni alla possibilità per le donne di mettersi al volante, criticando le autorità religiose. La sentenza di primo grado – sette anni di carcere e 600 frustate – è arrivata 30 luglio del 2013, ma ai giudici deve essere sembrata troppo blanda. In appello, il 7 maggio del 2014, le frustate sono diventate 1000 e gli anni di carcere dieci, cui si sono aggiunti circa 200mila euro di multa e i divieti di lasciare il Paese nei dieci anni successivi alla scarcerazione e di svolgere qualsiasi tipo di attività nel campo dei media.
L’Arabia Saudita detiene il record del numero di condanne a morte: nel 2014 le decapitazioni sono state ottantanove e dall’inizio dell’anno la monarchia assoluta ha giustiziato dodici persone e ha emesso quattro sentenze di morte. Sodomia, ateismo, traffico di droga (compresa la cannabis), fornicazione, blasfemia, stregoneria, apostasia (rinuncia all’Islam), terrorismo, tradimento, spionaggio, reati militari; è lungo l’elenco dei reati passibili di lapidazione, mutilazione e decapitazione. E al regime di rigida applicazione della Shari’a si accompagna una capillare campagna di persecuzione messa in atto nei confronti di attivisti della società civile e di difensori dei diritti umani, attraverso i tribunali e l’adozione di misure arbitrarie. Ma se è facile attaccare l’Isis e Al Qaida, non sembra altrettanto semplice condannare il regime saudita, l’alleato “moderato” dell’Occidente. Ogni frustata che si abbatte sulla schiena di Raif, però, si abbatte sulla libertà d’espressione per cui solo una settimana fa eravamo pronti a scendere in piazza gridando “Je suis Charlie”. Ogni giorno che il blogger – padre di tre figli che si sono rifugiati in Canada con la madre per paura di ritorsioni – passa dietro le sbarre è una ferita mortale ai principi in base a cui ci diciamo civili e democratici. Sono troppi i Paesi che fanno ancora finta di non sapere e che continuano a guardare esclusivamente ai morti di Parigi, per non dover vedere uno dei loro partner strategici reprimere il dissenso con la barbarie.
La campagna di Amnesty International, che venerdì scorso ha manifestato a Parigi in compagnia di Reporter Sans Frontieres con una partecipazione decisamente meno numerosa di qualche settimana fa, da sola non può bastare. Finora, oltre 13mila persone hanno firmato per la liberazione di Raif: un «prigioniero di coscienza», come viene definita «qualsiasi persona a cui sia impedito (dall’imprigionamento o altro) di esprimere (in ogni forma di parole o simboli) qualunque opinione personale che non sostenga o giustifichi violenza personale». Ora la decisione è nelle mani della Corte Suprema saudita, cui il re Abdullah – deceduto solo pochi giorni fa – in dicembre aveva inviato la sentenza per una revisione. Dalla Corte però non ci si attendono grosse sorprese. Le 950 frustate sono state solo sospese e le autorità potrebbero decidere di ignorare gli avvertimenti dei medici e passare alla seconda “razione” nonostante le sue condizioni mediche. Ma anche se la punizione corporale venisse cancellata, Badawi continuerebbe a essere vittima di un regime che cerca di soffocare alla radice la libertà di parola. Eliminata la flagellazione sulla pubblica piazza, infatti, a Badawi rimarrebbero dieci anni da scontare tra le sbarre di una cella, nell’oblio.