State of the Union, ovvero la resilienza di Obama
Lo State of the Union, il discorso annuale sull’assetto del Paese presentato al Congresso dal Presidente degli Stati Uniti, ha consentito quest’anno di fare il punto sugli obiettivi legislativi che il Governo dovrà negoziare con un Congresso a maggioranza repubblicana.
Obama ha esordito ricordando i traguardi raggiunti dall’attuale amministrazione: l’economia americana è al tasso più alto di crescita dal 1999, la disoccupazione inferiore ai livelli antecedenti alla crisi finanziaria, e la percentuale dei laureati e di coloro che possono permettersi un’assicurazione medica ai massimi storici. L’America del 2015 vanta 11 milioni di nuovi posti di lavoro e si colloca ai primi posti sia per la produzione di petrolio che per quella di energie rinnovabili.
Il Presidente ha ironicamente sottolineato come questi risultati non potranno che migliorare «Se la politica non sarà d’intralcio». E non sono mancati gli strali diretti all’ala repubblicana, ostile all’Obamacare e alla riforma dell’immigrazione, colpevole di aver rischiato di condurre il Paese allo shutdown, e solidale più con le regole di Wall Street che con la classe media americana. Il discorso è stato interrotto da un applauso quando Obama ha ribadito, ancora una volta, che ricorrerà al proprio potere di veto se dovessero giungere delle proposte volte a vanificare i risultati già raggiunti.
Il Presidente ha poi annoverato l’assistenza all’infanzia come priorità del Governo, invocato una più equa redistribuzione della pressione fiscale e suscitato l’ilarità dei presenti nell’invitare chiunque sia contrario all’innalzamento del salario minimo a provare a vivere con «meno di 15,000 dollari l’anno».
Ineludibile la questione dell’educazione: sia il Tennessee, uno Stato con una leadership repubblicana, che Chicago, una roccaforte democratica, offrono istruzione gratuita per i primi due anni di college. È quindi auspicio della Casa Bianca che si possa garantire la stessa opportunità a tutti gli studenti d’America.
È interessante come Obama abbia liquidato chi, in questi anni, lo ha rimproverato di scarso decisionismo in materia di sicurezza e di politica estera: «Come Comandante Supremo ho il dovere di difendere gli Stati Uniti […] Quando la prima reazione a una sfida è di inviare l’esercito, rischiamo di venire coinvolti in conflitti non necessari, e trascuriamo le strategie di più ampio respiro di cui abbiamo bisogno per un mondo più sicuro e prospero. È quello che i nostri nemici vorrebbero facessimo […]. Siamo dei leader migliori quando combiniamo la forza militare a una forte diplomazia».
Quella che i Repubblicani hanno spesso derubricato come scarsa risolutezza, consiste, ha rivendicato il Presidente, in una leadership americana che gestisca in modo più assennato il conflitto; lo scopo di stringere alleanze anche col mondo Arabo è proprio quello di «prevenire una nuova guerra e annientare la minaccia terroristica».
L’anatra zoppa penalizzata alle ultime elezioni di midterm sembra aver ritrovato la verve iniziale, e non ha mancato di prendersi qualche piccola rivincita («La mia unica agenda consiste nel fare ciò che è meglio per l’America […] Non ho più campagne da portare avanti, perché le ho vinte entrambe»).
Una parola ricorrente nel lessico presidenziale è “resilience”, che indica insieme spirito di adattamento e capacità di affrontare le sfide. Resilienza a cui si dovrà attingere pienamente per navigare attraverso questo biennio.
Twitter: claudia_pulchra