Charlie, la guerra e noi
Scrittori, giornalisti, vignettisti che vogliano dirsi anche soltanto in parte liberi, sanno di dover scontentare qualcuno cui le loro idee appariranno blasfeme, in un qualche senso non necessariamente religioso. Queste stesse categorie fondano la propria opera su uno spazio di libertà fatto di simboli, ma che non deve essere simbolico, deve esistere nella realtà e la cui esistenza può essere provata soltanto dall’esplorazione dei limiti di questa stessa, posti e fatti rispettare soltanto dalla legge francese. Questo è Charlie Hebdo, un giornale fatto di esploratori che sorvegliano i confini di quella libertà di espressione di cui noi godiamo per lo più timidamente, comodamente nascosti nelle zone più interne di questo spazio di pensiero per paura, conformismo o ignavia e, qualche volta, soltanto per indole. Quei confini dove si muove Charlie Hebdo, anche quando ci fa arrabbiare e pensiamo che le sue vignette siano prive di rispetto e intelligenza, sono le frontiere del nostro spazio di libertà, che un giorno potrebbe tornarci utile, e fonda il nostro vivere comune. Nel massacro di Parigi quelle frontiere sono bruscamente arretrate per mano assassina di qualcuno. Attorno a questo lutto e contro questa barbarie, stringiamoci mantenendo la lucidità.
I colpevoli pare siano due coppie di terroristi goffi e sconclusionati, ma ben avvezzi alle armi, capaci di sbagliare indirizzo e dimenticare i documenti in auto, ma anche di non sbagliare un colpo, eludere le sorveglianze e tenere in scacco l’intera forza pubblica francese per quasi due giorni. Le teorie e le analisi su un possibile False Flag, un attentato organizzato da altri con lo scopo di attribuirlo alla jihad islamista, dibattito già largamente scatenatosi su Internet, in questo momento hanno trovato alcune anomalie nel tragitto e nei video diffusi, ma nulla di consistente. Dunque l’impianto generale della versione ufficiale, con tutte le imprecisioni e le approssimazioni di queste concitate ore immediatamente successive, è da considerarsi quello corretto. In generale, tenere un occhio alla possibilità di un False Flag in questo genere di occasioni non è complottismo o credulità, ma una buona e sana pratica che ci tornerà molto utile nel prossimo futuro. Chi nega tutto ciò ignora quale sia la prassi e la realtà storica con cui operano i governi, per primi ma non da soli quelli occidentali, in scenari di guerra fredda quali quello in cui stiamo entrando o, in alternativa, è un ingenuo che ha avuto la fortuna di nascere in un Paese dove non è mai esistita la Strategia della Tensione.
Lucia Annunziata, sull’Huffington Post, decreta la fine della politica dello struzzo da parte degli europei e l’inizio di una terza guerra mondiale contro il terrorismo, guerra che avrà bisogno di armi e sicurezza. Probabilmente l’Annunziata ha ragione quando dice che ci dirigiamo verso la terza guerra mondiale, ma con ragioni e dimensioni del conflitto probabilmente ben maggiori di quelli che sospetta lei. E sì: chiunque esprima pubblicamente il proprio libero pensiero, specie con la penna o la matita, è stato attaccato. Tuttavia, a questo attacco, si può rispondere in vari modi, non necessariamente andando in guerra, e se anche questa fosse l’unica soluzione, e non la trappola mortale in cui rischiamo di cadere, bisognerà capire bene contro chi e dove dispiegare questa campagna.
Se i negoziati ONU dovessero fallire, Matteo Renzi ha già dichiarato che l’Italia è pronta ad assumere un ruolo da protagonista sotto l’egida dell’ONU, nel cui Consiglio di Sicurezza ci sono la Russia e la Cina; vedremo. La Libia è un vasto territorio prevalentemente tribale che Gheddafi, eccentrico e sanguinario dittatore, aveva avuto l’unico merito storico di tenere pacificato e relativamente prospero (oltre a quello prosaico di darci petrolio a prezzi ragionevoli). L’Occidente lo ha rimosso con la forza armando i ribelli e bombardando direttamente il territorio libico. Il risultato è che oggi la guerra rischia di portarci in armi in una distopia vivente dove al governo di Tripoli ci sono golpisti filo-islamici. A Bengasi i Fratelli Mussulmani combattono contro Ansal Al Sharia, un’organizzazione jihadista affiliata allo Stato Islamico (IS non ISIS, un nome abbandonato mesi fa dall’organizzazione ma che è rimasto nel cuore e nell’immaginazione dei giornalisti). A Tobruk un ex-generale Gheddafiano, presunto interlocutore dell’Occidente, governa su un fazzoletto di terra appoggiato dall’Egitto (in guerra coi Fratelli Mussulmani). Ora, in questo caos da noi creato, potremmo trovarci a intervenire.
La vicenda in Siria ha inizio con la ribellione a Bashar Al-Assad, altro dittatore fascista e sanguinario che, tuttavia, non invadeva nessuno da più di quarant’anni. I ribelli erano, secondo gli USA e i media occidentali, islamici moderati, futuri campioni di democrazia che avrebbero dovuto consumare in comode gallette d’importazione. I ribelli erano in realtà degli jihadisti, come Jabhat Al Nusra gruppo che si fonde parzialmente, cioè con molte defezioni, con l’IS di Al Baghdadi (all’epoca ISI). L’IS era una costola di Al-Qaueda in Iraq, che ha preso progressivamente autonomia perseguendo scopi espansionistici verso la Siria. Al Nusra, considerata da alcuni il braccio di Al-Quaeda in Siria, rappresentava la jihad sunnita anti-Assad. Questi ribelli dunque, quanto moderati lo abbiamo visto, sono stati incensati dall’Occidente durante la ribellione, finanziati e armati dai sauditi e dal Qatar, col placet e il denaro, almeno in una prima fase, della Casa Bianca come mostrano le foto in cui il senatore McCain (già telegenico a Piazza Maidan) fraternizza con essi. La verità è che in Medio Oriente si sta stringendo la morsa contro gli sciiti (Assad, Iran, Hetzbollah che combatte contro l’IS) e questo era nell’interesse strategico dell’Occidente e dei sauditi. Lo conferma il fatto che gli Stati Uniti, per due volte tra il 2008 e il 2012, sono stati sul punto di attaccare uno Stato mediorientale, l’Iran e la Siria. Nel caso della seconda, ovvero il più recente, gli Usa avevano posizionato le portaerei e dispiegato le truppe in preparazione di un attacco. Si fermarono quando la Cina non approvò e, soprattutto, quando Putin disse: «Saremo al fianco della Siria», sfidando di fatto gli Stati Uniti. Oggi ci sono due fronti principali, uno con la Siria e uno con la Russia. Se l’Occidente andrà in Siria potrà contare soltanto sui curdi (i veri eroi partigiani di questa guerra barbara, a cominciare dal PKK), finora abbandonati per il veto della Turchia e di altri alleati occidentali, che non vogliono uno Stato curdo. Saremo in uno scenario locale di tutti contro tutti, con confini prossimi molto caldi come Iran e Palestina, invisi come sempre a gran parte della popolazione locale. Ci troveremo all’interno di un contesto più ampio di pressione sulla Russia, durante una recessione, e pieni di giovani provenienti da famiglie di recente immigrazione, che potrebbero sentirsi ancora più motivati a radicalizzare le loro posizioni.
Questo è il genere di guerra in cui tenteranno di arruolarci e lo stesso sarà per i giovani musulmani.
Quando si va in guerra la macchina della Storia accelera, tutto cambia molto in fretta, si è proiettati a tale velocità nel futuro, che si rischia di non badare molto al passato, dal quale questo futuro di sangue ha attecchito e si è generato. Questo non è soltanto poco saggio, ma fa comodo a chi, da una parte e dall’altra, questa guerra l’ha meticolosamente preparata, con tanto di paure e mistificazioni sparse a pioggia dai media occidentali e dai manifesti digitali, stile manga, con cui l’IS promuove se stesso tra i giovani figli dell’Islam, gli stessi che poi, magari, ammazza come ostaggi.